La sua gattina - Copertina

La sua gattina

Michelle Torlot

Rapita

ROSIE

Le mie palpebre erano pesanti, ma ero consapevole di ciò che mi circondava, beh, lo ero più o meno. Abbastanza da sapere che non volevo aprire gli occhi.

Sentivo di avere un panno in bocca legato.

Le corde mi scavavano nei polsi, che erano bloccati dietro la schiena in modo da impedirmi di muoverli. Stessa cosa per le caviglie. La corda mi mordeva la carne, sfregandomi la pelle. Tuttavia, ero sdraiata su qualcosa di morbido, non sul pavimento.

Mi sforzai di aprire gli occhi, poi mi sentii prendere dal panico.

Ero su un divano, in una stanza, con un ampio fascio di luce che filtrava da una grande finestra. Ma non era per quel motivo che mi ero fatta prendere dal panico.

Nella stanza c'erano due uomini robusti, vestiti in modo simile a quelli che mi avevano afferrata. Vedendo la luce del giorno che filtrava dalla finestra, realizzai che si era probabilmente trattato della sera precedente.

Lottai contro i legacci e cercai di urlare attraverso il bavaglio, ma il risultato fu un semplice mugolio.

Uno degli uomini si voltò immediatamente verso di me. Erano diversi da quelli della sera precedente. Ma chi erano? E quanti erano?

"Sembra che la nostra piccola puttana si sia finalmente svegliata". Disse.

Iniziò a camminare verso di me, facendomi entrare ancora di più nel panico.

Sentii le lacrime scorrermi sul viso. Non mi ero nemmeno accorta che stavo piangendo. Mi sforzavo di oppormi alle legature e strillavo attraverso il bavaglio.

Mi avvolse la gola con una mano, stringendola abbastanza da costituire una minaccia, anche se riuscivo comunque a respirare.

"Sarai una brava ragazza, sì?" Mi chiese in un inglese perfetto, pur con un forte accento.

Annuii rapidamente, mugolando attraverso il bavaglio.

Si leccò le labbra e guardò l'altro uomo, sorridendo. L'altro sgranò gli occhi.

"Sbrigati, Marco. Voglio scoparla prima che ritorni anche il vecchio!"

L'uomo che mi stringeva la gola ridacchiò.

"Pazienza, amico mio. C'è un sacco di tempo".

Poi sentii la sua mano... scivolarmi sotto la maglietta, e le sue dita accarezzarmi la pelle sullo stomaco.

Urlai e inarcai la schiena, cercando di allontanarmi da lui. La sua presa sul collo si spostò e mi afferrò i capelli, tirandomi indietro la testa.

"Stai zitta, puttana!" Ringhiò.

Capii che si trattava di una sorta di insulto. Non ero mai stata un'urlatrice o una piagnucolona, ma ora non potevo fare a meno di singhiozzare attraverso il bavaglio. Le lacrime avevano cominciato a scendermi sulle guance.

La sua mano si spostò sul mio seno e lo strinse con forza.

"Sei reattiva". Sorrise.

Urlai di nuovo, tra un singhiozzo e l'altro, e la sua mano mi lasciò andare i capelli. "Ho detto di stare zitta!" Ringhiò.

A ogni sillaba la sua mano sbatteva sulla pelle nuda della parte superiore della mia coscia.

Mi stava facendo molto male. Riuscivo a sentire solo il suono del cuore che mi batteva contro la cassa toracica e dei miei singhiozzi sotto il bavaglio. Chiusi gli occhi, cercando di ignorare ciò che stava accadendo, cosciente del fatto che le cose sarebbero andate solo peggiorando.

Una terza voce mi invase i sensi. Era profonda, dominante e autorevole.

"Stacca le mani da quella bambina, pezzo di merda", ringhiò.

Sentii le mani del mio aguzzino staccarsi dal mio corpo e lo vidi allontanarsi. Poi sentii un forte botto e un tonfo: sapevo di cosa si trattava. Era un colpo di pistola.

Singhiozzai ancora più forte e tutto il mio corpo iniziò a tremare. Se non fosse stato per il bavaglio, mi sarei sentita male.

"Chiunque altro la toccherà farà la stessa fine di quel pezzo di merda", ringhiò il mio salvatore.

Diverse voci risposero: "Sì, Don Marchesi".

Sentii la bile salirmi in gola quando capii finalmente chi erano quelle persone. Parlavano italiano, lo chiamavano Don… questa era la mafia: la mafia italiana.

Il divano si abbassò quando qualcuno vi si sedette sopra. Cercai di smettere di piangere senza riuscirci.

Poi una mano mi toccò delicatamente la testa e io mi voltai e cercai di allontanarmi, singhiozzando ancora più forte.

"Shhh, piccola. Ora sei al sicuro", sussurrò la voce mentre mi toglieva il bavaglio.

Il suo accento non era così forte, non come gli altri, ma era comunque presente.

Almeno potevo capire quello che diceva.

Aprii gli occhi. Tutto era sfocato, mentre le lacrime mi annebbiavano la vista.

Il suo pollice mi accarezzò la guancia.

"Così bella, così innocente", sussurrò.

Gli sentii schioccare le dita.

"Tu, taglia queste maledette corde e ripulisci questo casino".

Udii dei passi e qualcuno che tirava le corde, che caddero liberandomi le caviglie e le mani.

Prima che potessi fare qualcosa, un braccio mi avvolse con forza la vita e un altro mi scivolò sotto le ginocchia, sollevandomi dal divano.

Sentii l'impulso di lottare e reagire, ma quell'uomo mi aveva salvata: aveva ucciso l'individuo che, ne ero sicura, stava per violentarmi.

Ma continuai a piangere. Non riuscivo a trattenermi. Mi resi conto di essere nelle mani della mafia italiana e di non avere alcun controllo sul mio futuro.

Era opera di mio padre? Lavorava per loro? Era questo il motivo per cui dovevo nascondermi nella mia stanza quando c'erano dei soci d'affari?

Sentii di nuovo la voce dell'uomo. Il suo tono profondo mi tranquillizzava quando in realtà avrebbe dovuto spaventarmi.

"Rilassati, gattina. Adesso sei mia", sussurrò.

Quando mi parlava, era per lo più in inglese. A volte però ci aggiungeva una parola strana, che supponevo fosse italiana.

Tuttavia le parole non erano mai dure. Non come quelle degli altri. Immaginai che, in quei casi, fossero per lo più imprecazioni o insulti.

Mi portò su per le scale di quella che sembrava una villa. Anche le scale erano il doppio di quelle normali.

Poi entrammo in una camera da letto e mi prese subito il panico. Forse ero caduta dalla padella nella brace.

Mi adagiò delicatamente sul materasso. Lo guardai, mentre si toglieva la giacca e la gettava su una sedia.

Rimosse con cura i gemelli della camicia: erano d'oro, con un diamante al centro. Li posò su una toletta, poi si rimboccò con cura le maniche.

"Ti prego... non..." piagnucolai.

Lui si accigliò e mi accarezzò dolcemente il viso.

"Mi dispiace, piccola. Gli uomini di sotto... dovrebbero saperlo. Non lo permetterei mai..." Mi tranquillizzò.

***

Ora avevo la possibilità di guardare non solo il mio rapitore, ma anche il mio salvatore. Il suo volto era vagamente familiare, ma non riuscivo a riconoscerlo. E perché avrei dovuto?

Era un boss della mafia italiana, non l'avevo mai visto prima. Mi tolsi quel pensiero dalla mente.

Per essere un boss della mafia non era vecchio. Probabilmente aveva la stessa età di mio padre ma era molto più muscoloso.

Anche la sua carnagione era più olivastra. I suoi capelli erano castano scuro, quasi neri, e i suoi occhi erano di un marrone profondo. Portava una barba ben curata, che non serviva a nascondere la mascella affilata e la cicatrice che gli attraversava la guancia.

Era vestito in modo simile agli altri uomini. Dico simile perché i suoi abiti erano chiaramente firmati, mentre quelli degli altri erano fuori moda.

Non indossava nemmeno la cravatta, ma solo una camicia bianca e pulita, con i primi bottoni slacciati. Una catena d'oro gli ornava il collo. Sull'avambraccio aveva un grande tatuaggio, che potevo solo supporre continuasse lungo il braccio.

"Perché sono qui?" Sussurrai, con la voce incrinata.

Il suo pollice mi sfiorò la guancia.

"Tutto a tempo debito, gattina. Per ora, credo che dovremmo trovarti un cambio d'abito".

Si alzò e attraversò la stanza. Aprì una serie di doppie porte che nascondevano una cabina armadio.

Quando tornò, aveva con sé una camicia e un paio di boxer. Li posò sul letto e indicò un'altra porta.

"Quello è il bagno, gattina. Probabilmente vorrai darti una ripulita. Tornerò tra venti minuti e poi potrai mangiare qualcosa. Va bene?"

Volevo urlare: "No, voglio andare a casa". Ma non era più un'opzione. Probabilmente casa mia era ancora piena di poliziotti, senza contare il fatto che mio padre non era lì. All'improvviso mi resi conto che avrei dovuto chiamare lo zio Daniel.

"Hai il mio telefono? Dovevo chiamare mio zio".

Ridacchiò. "Certo che dovevi, gattina".

Mi resi conto di quanto tutto sembrasse banalmente prevedibile. Era quello che dicevano tutte le persone rapite, giusto? La mia famiglia mi cercherà.

Guardai il pavimento e sospirai. Avevo perso tutta la mia forza d'animo.

"Ti lascio darti una ripulita, gattina", disse lui ridacchiando e facendo un cenno verso il bagno.

Mentre si dirigeva verso la porta, alzai lo sguardo e dissi: "Mi chiamo Rosie".

Lui mi guardò e sorrise. "Oh, so esattamente chi sei, gattina".

Lo guardai mentre apriva la porta e se ne andava, con la confusione sul volto.

Come faceva a sapere chi ero? Io non avevo idea di chi fosse.

Raccolsi i vestiti e mi diressi verso il bagno. Era enorme. Più grande della mia camera da letto a casa.

C'era una doccia gigantesca, una grande vasca ad angolo con idromassaggio, e doppi lavandini con specchi. Su una delle pareti, c'era un grande portasciugamani riscaldato, pieno di soffici asciugamani bianchi.

Chiusi la porta e la bloccai.

Mi sentivo sporca. Non riuscivo a pensare ad altro che alle mani di quel lurido bastardo su di me.

Era sbagliato che non mi dispiacesse che fosse morto? Rabbrividii. Non solo al pensiero, ma anche perché la persona che mi aveva salvata non aveva esitato a sparargli.

Anche se avessi pensato di scappare, la paura di essere catturata era dieci volte peggiore. Probabilmente avrebbe sparato anche a me. Avrei voluto sapere perché ero stata presa. Non era solo per aver occupato abusivamente quella casa, ovviamente.

Mi spogliai e considerai sia la vasca che la doccia. La doccia sarebbe stata più veloce, ma il bagno mi avrebbe aiutata a smaltire lo stress e il dolore ai muscoli delle spalle.

Non sapevo per quanto tempo fossi rimasta legata, ma era stato abbastanza a lungo da indolenzirmi il corpo.

Accesi la vasca e il vapore iniziò a riempire la stanza. Entrai al suo interno, nell'acqua calda. Quando mi sedetti, trasalii e guardai la parte superiore della mia gamba: era ancora rossa nel punto in cui il morto mi aveva colpita.

Mi sdraiai lasciando che l'acqua calda mi rilassasse, e chiusi gli occhi, cercando di immaginare di essere in un posto diverso da quello in cui mi trovavo.

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