Mason (Italian) - Copertina

Mason (Italian)

Zainab Sambo

Capitolo 3

LAUREN

Non ricordavo di essermi mai svegliata per prepararmi ad andare al lavoro così entusiasta e nervosa allo stesso tempo.

La notte prima avevo dormito a stento.

La mia testa continuava a ripetermi che lavorando per Mason Campbell. A un certo punto avevo iniziato a darmi dei pizzicotti da sola, per convincermi che non si trattava di un sogno. Oppure di un terribile incubo.

Quando l’avevo raccontato a Beth, la mia migliore amica e compagna di stanza, lei si era messa a ridere e mi aveva chiamata bugiarda. Che audacia.

Non credeva che avessi davvero parlato con Mason, perché non ero abbastanza importante per conversare con lui né per essere al suo cospetto.

Pensava che avessi trovato lavoro in un posto disgustoso e io non volevo perseverare con la verità, così mi trattenni dall’insistere sul fatto che lavoravo per la Campbell Industry.

Affermare che non mi sentivo profondamente offesa sarebbe stata una bugia.

Beth ne parlava come se Mason fosse un dio che nessuno poteva avvicinare. Per quanto ne sapevo io, però, Mason non era né un dio né un angelo.

Non era una persona che avrebbe dato caramelle ai bambini con voce dolce e parole incoraggianti, nessuno si sarebbe sentito scaldare il petto dalla sua presenza.

Lui era Satana.

Mason era la persona che avrebbe strappato le caramelle dalle mani dei bambini per mangiarle di fronte a loro.

Era la persona che ti avrebbe spinto sotto a una macchina a sangue freddo.

Era la persona che, con poche parole, poteva provocare un infarto a qualcuno e lasciargli una ferita profonda nel cuore.

Una cosa su di lui, però, era vera. Era attraente, non potevo negarlo.

Perché gli uomini affascinanti erano tutti così scontrosi, freddi e spietati?

Parlavo per esperienza. L’ultimo ragazzo che avevo avuto, qualche anno prima, era attraente, ma mi aveva tradita. Si era giustificato dicendo che io ero noiosa e chiedevo troppo. Che stronzo.

Okay, magari un solo esempio non è abbastanza.

Ma che ne era di tutti i bei ragazzi a cui avevo sorriso e che mi avevano rivolto soltanto freddezza di rimando, eh?

E comunque, Mason era il più stronzo di tutti.

Quel coglione mi aveva detto senza troppi giri di parole che non ero intelligente. Si era preso gioco dei miei voti scolastici.

Ed era persino una gentilezza se paragonata a ciò che aveva detto sui miei pregi inesistenti. Non riuscivo a immaginare quanto dovesse essere terribile lavorare per lui.

Forse quel giorno era di malumore? Forse non era così malvagio come credevo, l’avevo giudicato troppo presto.

Qualsiasi fosse la verità, però, stavo per diventare la migliore assistente che avesse mai lavorato per lui. Non gli avrei dato alcuna ragione di prendersela con me e ridersela sotto i baffi.

Mi ero svegliata presto, mi ero preparata e avevo indossato la mia migliore espressione, felice e coraggiosa.

Non avevo voluto svegliare Beth per dirle che me ne andavo, perché la stronza avrebbe potuto rispondere con qualcosa che non mi avrebbe fatto piacere, così avevo preso le mie cose e avevo lasciato l’appartamento.

Quello che indossavo, a mio parere, era quanto di migliore avessi nel guardaroba.

Era un abito così bello che avrei potuto usarlo per un’occasione speciale o un matrimonio; non riuscivo a credere che me l’ero messo per andare al lavoro. Né all’ostilità che incontrai quando misi piede nell’edificio.

A quanto pareva, sapevano già tutti che io ero la nuova assistente del capo.

Probabilmente non accadeva da tanto.

Ignorai gli sguardi che mi lanciarono tutti e premetti il dito sudato sul pulsante che mi avrebbe portata al piano dove si trovava l’ufficio del Signor Campbell.

Quando la porta si spalancò ne uscii, nervosa a ogni passo. Se le mie gambe avessero avuto vita propria sarebbero scappate via da lì, lasciandomi senza forza motrice.

Facendomi strada per il corridoio, non avevo idea di dove diavolo andare. Non pensavo di potermi semplicemente dirigere all’ufficio del Signor Campbell e chiedere dove fosse la mia scrivania.

Non credevo neanche che ci fosse, lì, una scrivania tutta per me.

“Lauren Hart?”

Mi voltai al sentire il mio nome e mi ritrovai faccia a faccia con una donna bellissima. Era attraente e vestiva benissimo. Che invidia.

Volevo soltanto tirarle i capelli e rovinarle la gonna e la camicetta. Volevo renderla disordinata, ma non sapevo neanche perché.

Anzi, lo sapevo. Perché era molto più attraente di me.

Dio solo sapeva che cosa avesse visto quando mi aveva guardata.

Io ero ben conscia di cosa vedessi allo specchio ogni mattina.

Sembrava avere ventiquattro o venticinque anni.

“Sì?” risposi, educata. Le rivolsi persino un sorriso.

Se lei lo ricambiò? Certo che no.

“Mi chiamo Jade. Sono sorpresa di vederti qui così presto, ma suppongo che sia una buona cosa. Il signor Campbell non ama la gente ritardataria”.

Volevo risponderle: “E tu, stronza, non sei arrivata ancor prima di me?”, ma invece le rivolsi un altro sorriso.

“Sono sicura che nessuno arrivi mai in ritardo. Per fortuna mi alzo presto ogni mattina. Il signor Campbell non ha nulla di cui preoccuparsi, con me”.

“Mmh”. Lei annuì, masticando la penna che aveva in mano, e mi squadrò da capo a piedi. Era chiaro che non le piacesse ciò che vedeva.

“Nessuno mi ha descritto l’aspetto dell’assistente del signor Campbell, ma devo dire che sono un po’ delusa.

“Mi aspettavo di più. Immagino sia stato mosso dalla compassione. Se fossi stata in lui, forse anche io avrei avuto pietà.”

No, non volevo soltanto rovinarle l’aspetto, volevo assassinarla a sangue freddo e seppellire il suo corpo sottoterra per poi lasciarlo a marcire fino alle ossa.

Il capo e i suoi impiegati erano fatti della stessa pasta, forse? Si comportavano tutti come se fossero stati migliori di chiunque altro.

Feci un grosso sorriso.

“Immagino abbia visto in me qualcosa che non ha visto in nessun altro. Devo essere fortunata.”

Lo sguardo assassino che mi rivolse mi restituì un po’ di soddisfazione.

“Come ti pare. Seguimi, ti mostro la tua scrivania.”

La seguii con attenzione, pugnalandole la schiena con gli occhi.

Appena si voltò a guardarmi, indossai di nuovo il sorriso più dolce che riuscivo a fare.

Lei mi indicò un tavolo con un computer portatile bianco su di esso. La mia scrivania era appoggiata contro il muro, accanto a una porta a due ante.

“Devi sederti lì”, mi spiegò.

“Non mettere le tue cose sulla scrivania perché al signor Campbell non piace. Il tuo unico lavoro è rispondere alle chiamate e completare tutti i tuoi doveri. Chiaro?”

“Sì”.

“Molto bene. Benvenuta alla Campbell Industry. Vediamo quanto duri”.

Mi morsi la lingua ed espirai dal naso.

“Ti assicuro che durerò più a lungo di te”.

Le sue sopracciglia si incresparono, ma non disse niente. Si allontanò da me e mi lasciò ad ambientarmi.

Ci volle più o meno mezz’ora prima che il signor Campbell entrasse nel palazzo. Fu come una tempesta, un uragano che risucchiava ogni cosa.

La sua espressione era priva di emozioni, occhi freddi come la pietra che potevano porre fine all’esistenza di chiunque.

Mi alzai, pietrificata, incapace di distogliere lo sguardo dalle sue braccia muscolose, il suo petto, le sue gambe. Il suo completo blu di Armani lo abbracciava come una seconda pelle.

C’era qualcosa di perfetto e letale nei suoi movimenti predatori, mentre camminava.

Il mio cuore batteva forte, affascinato.

Era un uomo potente e incredibile sotto ogni punto di vista. Soltanto vederlo in tutta la sua gloria sarebbe bastato a mettermi in ginocchio.

Sembrava che lo stessi incontrando per la prima volta.

Tutti gli augurarono il buongiorno, ma lui li ignorò e li sorpassò con una grazia che non avevo mai visto in nessuno, recandosi nel suo ufficio.

Era così scortese.

Rimasi alla mia scrivania per qualche minuto prima di trovare il coraggio di dirigermi nella stessa direzione.

Bussai alla porta una, due volte, ma non ricevetti alcuna risposta.

Bussai una terza volta, più forte.

“Che c’è?” La sua voce era profonda e impetuosa. Sembrava che risuonasse in tutto l’edificio.

Ingoiai la saliva che mi era risalita in gola, girai la manopola e spinsi le ante per aprirle. Entrai in quel freddo ufficio chiudendomi la porta alle spalle.

“Buongiorno, Signore”, lo salutai, con il cuore che batteva forte in petto.

Il signor Campbell alzò lentamente lo sguardo verso di me.

Sembrava ancora più spaventoso di quanto ricordassi e non riuscii a fermare il tremore che mi percorse tutto il corpo al sentire i suoi occhi argentei su di me. Non c’era nulla di familiare nel suo sguardo.

Trattenni il respiro.

I suoi occhi mi squadrarono, un’azione pigra. Percepivo noia. Era infastidito dalla mia presenza, tra di noi c’era la distanza gelida che lo contraddistingueva.

I nostri sguardi rimasero incatenati in un lungo, nervoso momento.

Un centinaio di emozioni mi pervasero tutte in un istante. Sembrava che il mondo si fosse bloccato del tutto.

Quell’uomo… era spaventoso. E io gli avevo appena venduto l’anima.

“Sì? Posso aiutarla?” Abbaiò.

Io lo fissai, incapace di capire che cosa intendesse. Non ero autorizzata a vederlo finché lui non avesse avuto bisogno di me?

Prima di poter rispondere, lui sparò altre domande come se fossero proiettili di pistola.

“Come ha fatto a entrare? Chi l’ha lasciata salire?” Premette un pulsante sul telefono e parlò. “Chi ha fatto entrare questa donna? Ti pago per far entrare estranei nel mio ufficio? Mi chiedi quale donna? Sei licenziato!”

Stava alzando la voce contro quel pover’uomo dall’altra parte del telefono.

“Per favore, signor Campbell, mi ha assunto come sua assistente. Lauren Hart, ricorda?” gli chiesi, quasi strozzandomi nella mia stessa voce di supplica.

Il mio cuore batteva così forte che a stento riuscivo a muovermi. Ogni briciolo del mio istinto suggeriva di non far arrabbiare ulteriormente quell’uomo. Era come trovarsi in un’impetuosa tempesta, una forza contro cui non bisogna mai mettersi.

Mason sollevò un sopracciglio per squadrarmi, poi mi puntò contro la penna, rendendosi conto di chi fossi.

“Hai un aspetto diverso. Non sei terribile come l’altro giorno. È un progresso”.

“Sì, signore”, risposi, facendo fatica a mantenere la mia voce lieve e semplice. “Faccio del mio meglio per rispondere alle aspettative dell’azienda”.

L’uomo distolse finalmente lo sguardo da me e ribatté: “Non vedo come questo sia possibile, signorina Hart”.

Lo osservai appuntarsi qualcosa su di un pezzo di carta. “Prendi”.

Io fui rapida ad afferrare il foglio che mi stava porgendo. Le nostre dita si sarebbero toccate se solo lui non avesse ritratto la mano immediatamente, prima ancora che accadesse.

“Sono la mia e-mail e password. Rispondi a tutte le mie e-mail. Ignora quelle irrilevanti. Non fissare nessun incontro senza prima consultarmi.

“E non permetterti, per nessun motivo, signorina Hart, di rendere pubblica anche solo una delle mie e-mail.

“Le mie e-mail sono private. Se vengo a sapere che hai discusso del loro contenuto con amici o familiari, ti assicuro che te ne pentirai”.

Il mio cuore prese a battere più forte. Odiavo il fatto che riuscisse a mettermi tale ansia. Lo stava anche facendo apposta.

Ovviamente.

“Ogni mattina, alle nove in punto, devi portarmi il tè. Niente caffè. Mi piace il tè nero. Non dev’essere né troppo caldo, né troppo freddo. Tutti i documenti che devo firmare devono essere sulla mia scrivania prima di allora.

“Non entrare mai nel mio ufficio, non ricevo nessuno tra mezzogiorno e l’una. Il pranzo va preso al ristorante Rosiere. È a un’ora di macchina da qui, non mi interessa come ci arrivi. Chiedi il solito.

“Tieni a mente che dev’essere caldo e sulla tavola per le due. Se lo trovo freddo, ti verrà detratto dallo stipendio”.

Ma era serio? Dio, che prepotente.

Ma guardalo, seduto lì a dare ordini come se fosse il padrone del mondo intero.~

Gesù, se quell’uomo fosse stato a capo del mondo, saremmo stati tutti condannati.

Non avevo passato che qualche minuto in sua presenza e sapevo già che il mondo avrebbe sofferto se fosse finito nelle sue mani.

“Mi stai ascoltando?” Sembrava oltraggiato. La sua espressione emanava rabbia, il suo sguardo mi studiò, serio.

Qualcosa di oscuro attraversò la sua espressione e mi fece contorcere lo stomaco.

Deglutii e annuii.

Lui aggrottò le sopracciglia. “Non annuire. Parla quando ti viene fatta una domanda. Hai capito?”

“Sì, signore.” Abbassai lo sguardo prima di posarlo su di lui.

La sua espressione furente mi riempì di terrore. Continuò a parlare con tono freddo e spietato.

“Mi sono incaricato personalmente di questo.” Mi lanciò quello che sembrava un manuale. “Leggilo. Seguilo alla lettera se vuoi ancora essere qui in una settimana”.

“Prometto che non la deluderò”, risposi, a voce bassa.

“Non mi interessa se mi deludi, signorina Hart. Sarei lieto di saperlo. Sarebbe la prova che la mia opinione su di te è giusta. Non credere di essere già nella Campbell Industry.

“Sei in prova. Qualsiasi errore ti costerà il posto e sarai fuori in un batter d’occhio. Come ho detto, non sei l’unica che avrebbe dato tutto per questo lavoro.

“C’è molta gente che lo vorrebbe. Gente con talento.” Intrecciò le dita di una mano con quelle dell’altra. “E non credere neanche per un attimo di essere speciale.”

Figlio di puttana.

Avevo la risposta pronta sulla punta della lingua, ma lui mi zittì con una mano.

“È tutto”.

Mi voltai e lasciai in silenzio l’ufficio.

Sapevo che Mason Campbell era un sacco di cose e scortese era una di queste, ma non ero preparata a tale ~scortesia.

Senza guardare nessuno, mi diressi alla mia scrivania.

Sedetti, contai da uno a dieci e portai l’attenzione sul manuale dell’impiegato che mi era stato dato. Stavo per iniziare a leggerlo quando sentii qualcuno tossire.

Sollevai il capo e incontrai lo sguardo di Jade, che mi stava rivolgendo un’occhiata da: “Ti odio ma non c’è niente che io possa fare a riguardo”.

“Sì?”

Lei alzò gli occhi al cielo.

Alle otto e cinquantacinque precise corsi a preparare il tè al signor Campbell.

Mi bloccai, cercando di ricordare se mi avesse detto quanto zucchero voleva o se non ne voleva affatto.

Rischiai e non ce lo misi. Poteva essere una mossa che mi avrebbe salvato, così come condannato.

Quando mi diede il permesso di entrare nel suo ufficio, cercai di mantenere la calma al meglio delle mie possibilità.

Misi il tè di fronte a lui e attesi di essere congedata. Il signor Campbell si prese il suo tempo per finire quello che stava facendo al computer e poi bevve il tè.

Feci un sospiro di sollievo quando non lo sentii urlare a causa della mancanza di zucchero.

“Puoi andare”, mi disse, glaciale.

Non mi aveva neanche rivolto lo sguardo.

“Di niente, signore”, risposi, voltandomi per lasciare l’ufficio.

La sua voce bloccò i miei movimenti.

“Cos’hai detto?” Il suo tono era incredulo, rabbioso, così furente che le mie gambe presero a tremare di terrore. “Era sarcasmo quello, signorina Hart?”

Scossi il capo, cercando di individuare il momento preciso in cui il buonsenso mi aveva abbandonata. Non ero sarcastica. Come potevo esserlo davanti a un capo come lui?

Era stato l’istinto a farmi pronunciare quelle parole.

“Mi dispiace, signore. Non volevo essere scortese.” Non sapevo neanche quante volte mi ero scusata con lui da quando l’avevo incontrato.

E qualcosa mi diceva che non era finita lì.

Lui strinse gli occhi, nel tentativo di spezzarmi e provare che ero debole e incapace di sopportare la pressione. O, almeno, era quello che credevo stesse facendo.

“Puoi andare.”

Mi fiondai fuori dalla porta e ripresi a respirare soltanto quando fui lontana dal suo campo visivo.

Una bassa risata mi fece voltare, in cerca del colpevole.

Un ragazzo alto e magro mi stava fissando, le sue labbra erano incurvate in un sorrisetto. Aveva capelli corti e scuri ai lati, mentre sul centro erano più lunghi e disordinati.

Si rese conto che lo stavo guardando e si diresse verso di me. “Congratulazioni”, disse, con voce profonda e scherzosa.

“Sei sopravvissuta a due visite nel suo ufficio. Devi esserne felice.”

Non riuscii a trattenere un sorriso per due ragioni.

La prima era che era la verità e la seconda era che sapevo che mi sarebbe piaciuto.

Aveva l’espressione più amichevole dell’intero ufficio.

Feci un mezzo inchino, guadagnandomi una nuova risata, e risposi: “Vogliamo scriverlo su una tazza da lasciare sulla mia scrivania per celebrare?”

“Oh, bell’idea. Così che ne trarrai soddisfazione ogni volta che la guardi. Andata”.

Io gli porsi la mano e il mio sorriso si fece più largo.

“Sono Lauren. Lauren Hart”.

Il ragazzo dai capelli ramati lasciò andare la sua tazza con una mano e strinse la mia.

“È un piacere conoscerti, Lauren. Io sono Aaron Hardy. È bello vedere che qualcuno esce dall’ufficio del capo senza neanche una lacrima”.

“Possiamo dire che sono coraggiosa”.

Lui annuì e piegò il capo da un lato per analizzarmi.

“Oppure stupida. Perché hai accettato un lavoro del genere?” mi chiese e, prima che potessi rispondere, mi interruppe con un’esclamazione: “Ah-ah! Lo so. La paga, vero? È sempre la paga”.

Alzai gli occhi al cielo. “Una cosa del genere. Mi servono soldi”.

“Aah”.

“Sei troppo gentile con me. Com’è possibile? Tutti qui mi odiano o sono sul punto di odiarmi. Sono tutti nervosi. Insomma, gente, prendete un tranquillante”.

Lui rise e si strinse nelle spalle. “Credimi, sono tutti invidiosi di te. Il signor Campbell di norma non assume, scusa se mi permetto, ma… qualcuno come te.

“Vuole solo impiegati d’alta classe, persone che non lo metterebbero in imbarazzo. Pensano tutti che tu sia speciale per lui”.

Sbuffai con il naso. “Che stupidità. Lui mi odia”.

“Odia te come odia tutti”, rispose Aaron. “Non è niente di personale”.

“Mi chiedo perché faccia così”.

“E questo, mia cara Lauren, è quello che ci chiediamo tutti”, rispose, facendomi l’occhiolino.

“Torniamo a noi, prima di guadagnarci un’ora di lavoro extra non pagato”.

Io mi avvicinai a lui, sorpresa.

“Sei serio?”

“Nah”, rispose, marcando la “a” del diniego. “Non è così tanto un bastardo”.

Smisi di camminare e gli rivolsi uno sguardo scettico.

Lui si voltò e si strinse nelle spalle. “Okay, forse è così tanto bastardo”.

“Un bastardo di prima categoria, se chiedi a me”, risposi.

Qualcuno si schiarì la gola e io gelai, il mio cuore prese a battere velocissimo in un attimo.

Fu la risata di Aaron che mi riportò con i piedi per terra.

“Oh mio Dio”, disse, continuando a ridere. “Dovresti vedere la tua faccia. Pensavi che fosse lui?”

“Non lo è?”

“No, ma fai attenzione con le parole”.

Una ragazza dai capelli verdi mi sorrise e cinse il collo di Aaron con un braccio.

“Lei è quella nuova?”

Io mi raddrizzai, tirando indietro le spalle, e fissai la ragazza dritta negli occhi.

Lei ridacchiò.

“Diamine, bella, non mordo mica”, mi disse, divertita da come cercassi di difendere la mia dignità.

Mi rilassai subito, rendendomi conto che non voleva ferirmi. Non c’erano segni di sdegno nella sua espressione.

“Io sono Athena”.

Sollevai un sopracciglio.

Lei sogghignò. “Mia madre è un po’ strana”.

Le sorrisi. “Lauren. Hai i capelli verdi e non ti ha ancora licenziata”.

Ero certa che Mason non avrebbe mai, mai assunto qualcuno con i capelli verdi.

“Questo perché non può farlo. Sono sua zia”.

“Cosa? Ma non sembri neanche di…”

“Ventitré anni?” chiese Athena. “Sì, me lo dicono tutti. È più grande di me, ma io sono sua zia e bla bla bla. Sua madre è la mia sorellastra”.

“Wow”.

Athena doveva essere l’unica persona a ricevere un trattamento decente da lui.

Lei osservò la mia espressione stupita. “Oh, tesoro, soltanto perché sono sua zia non significa che non tratti male anche me”.

“Sì, ma almeno sei l’unica che rispetta”, disse Aaron.

Lei si strinse nelle spalle, come se non si trattasse di chissà quale grande vantaggio. Io non pensavo che il signor Campbell fosse capace di portare rispetto per qualcuno.

Il suo ego stratosferico non era in grado di concepire qualcosa del genere. Era strano sentire che quell’uomo, che pretendeva rispetto ovunque andasse, fosse in grado di rispettare qualcuno a sua volta.

“Andiamo”, disse Aaron. “Ho il compito di farti arrivare alla sua prossima riunione in tempo”.

Io sollevai le sopracciglia in puro stupore.

“Ti prego, davvero? Quindi per lui non sono capace di essere puntuale e ho bisogno persino del babysitter? E a te è stato dato lo stupidissimo compito di scortarmi alla riunione?”

Lui si raddrizzò in tutta la sua altezza e mi rivolse un sorriso giocoso.

“Ti sto prendendo in giro, Lauren. Il capo non ha il tempo né l’energia di fare una cosa del genere. È solo che non voglio che tu venga licenziata. Non so cosa succederebbe in quel caso”.

Ho sentito che sei fortunato a trovare un altro lavoro se perdi il posto alla Campbell…

“Oh, penso di avere una vaga idea delle conseguenze”, risposi. “Ma è così stupido. Come mai uno come lui ha tale influenza sulla gente?”

“Stai sottovalutando il potere di Mason Campbell, Lauren”.

Percorsi i corridoi al fianco di Aaron fino alla sala conferenze e, con mia sorpresa, qualcuno era già lì.

Jade.

Sedeva al posto più vicino alla sedia del capo.

Cercai di soffocare una risata, ma non riuscii a trattenerla. La donna alzò lo sguardo e ci lanciò un’occhiataccia.

“Credo che qualcuno qui desideri compiacere il capo ancor più di te”, commentò Aaron.

“Non sforzarti troppo, Jade. È una perdita di tempo”.

“Zitto”, sputò lei.

Io non dissi niente e mi accomodai su una sedia dall’altra estremità del tavolo. Aaron prese posto accanto a me.

Alle nove in punto, la gente iniziò a entrare e riempire tutte le sedie libere, finché non ne rimase nessuna.

Esattamente tre minuti dopo le otto, il signor Campbell entrò nella stanza. Ci alzammo tutti dalle sedie e, quando lui sedette, lo imitammo.

Cercai con tutte le forze di nascondermi dal suo sguardo, ma non ci riuscii, perché da ogni posizione vedevo chiaramente il suo viso.

Non stava sorridendo né aveva il volto corrucciato. Era serio e determinato. Tutti gli rivolgevano ogni attenzione e pensiero. Potere, leadership e autorità, tutto in una sola persona.

Io distolsi lo sguardo dai suoi occhi penetranti e mi focalizzai sulla vista fuori dalla finestra.

“Signorina Hart”.

Era così bella. Avrei potuto guardarla per tutto il giorno.

“Signorina Hart”.

“Lauren”, sibilò Aaron, tirandomi una gomitata tra le costole.

“Ahi, che c’è?” Io gli lanciai un’occhiataccia, massaggiando il punto dove mi aveva colpita. Faceva male. Speravo di non avere un livido. Poi notai che tutti mi stavano guardando.

Avrei voluto nascondermi sotto il tavolo.

“Non presti attenzione durante la tua prima riunione. Che altra brillante strategia desideri mostrarci oggi, signorina Hart?” disse Mason, sarcastico.

I suoi occhi erano puntati su di me, le mani incrociate di fronte a lui mentre mi osservava.

Il suo completo blu di Armani lo faceva apparire ancora più alto e grosso.

L’aria era pregna della sua presenza e del suo potere: forza e vitalità, così come controllo e audacia.

Sentii il cuore accelerare subito quando notai che avevo la sua completa attenzione, ma ero sicura che non sapesse l’effetto che aveva su di me. Oppure sì?

Sollevai il mento e lo fissai di rimando, sperando che il mio sguardo fosse freddo e determinato.

“Chiedo scusa. Non capiterà di nuovo”.

Ero contenta di non aver balbettato né mostrato segni di debolezza.

Un attimo di silenzio.

“Signorina Willow”.

Jade fu rapida a rispondere. “Sì, signore?” La sua voce era fastidiosamente dolce. Sembrava un cane a cui avevano appena dato un biscotto.

Dio, non poteva almeno fare finta di non essere così entusiasta?

“Faccia a cambio posto con la signorina Hart”.

La sua espressione crollò, scioccata. Io ero sorpresa quanto lei.

Jade scivolò via dalla sua sedia e Aaron dovette darmi un’altra gomitata perché io lasciassi la mia. Sentivo lo stomaco contorcersi a ogni passo.

Avrei preferito rimanere dov’ero.

Il fatto che tutti mi stessero guardando, specialmente il signor Campbell, rendeva tutto peggiore.

Rallentai, ma non smisi di muovermi.

Presi posto sulla sedia di Jade.

Adesso tutti potevano vedermi. Volevo sotterrarmi e scomparire.

Anche Athena era lì. Le sue sopracciglia erano sollevate in stupore, ma mi fece l’occhiolino.

Lanciai uno sguardo ad Aaron, che mi stava sorridendo.

Sapevo che tutti, nella stanza, erano sorpresi dalla decisione del signor Campbell, anche se nessuno osava dirlo ad alta voce.

E Jade mi stava uccidendo con gli occhi…

Guardai Mason Campbell. Il suo sguardo era fisso su di me, mi faceva sentire del tutto insignificante eppure, allo stesso tempo, come se fossi stata l’unica persona presente.

Ero nei guai fino al collo, più di quanto pensassi… ed era soltanto il primo giorno.

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