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La bratva di Chicago

Capitolo quattro

Ravil

Salimmo con l'ascensore sul retro fino all'ultimo piano. Possedevo l'intero edificio del centro, il Cremlino, come era noto nel quartiere. Tutti i presenti erano russi.

E avevo sparso la voce, prima di uscire per andare a casa sua. Tutti avrebbero dovuto parlare russo davanti a Lucy. Tutti.

Se avesse voluto qualcosa, avrebbe dovuto fare affidamento su di me.

Lucy mi aveva detto di aver già cenato, quindi per strada avevo chiamato per annullare l'ordine del pasto completo e chiedere invece una varietà di snack e stuzzichini vari.

Le tenni la mano sulla parte bassa della schiena mentre procedevamo. Non mi piaceva il suo viso fosse emaciato, né il pallore generale.

Camminavo sul filo del rasoio: dovevo accertarmi che prendesse la mia minaccia abbastanza sul serio da non disubbidirmi ma mettendola a suo agio, in modo che rimanesse in salute e potesse riposare tranquillamente.

Stavo già mettendo in dubbio il piano. Non ero tipo da trattenere la rabbia. Ricordavo un fatto che avevo archiviato per usarlo come motivo per eventuali vendette stessi mettendo in atto, ma non trattenevo l'emozione.

Tuttavia, non mi aspettavo di trovarmi così ansioso di vederla sotto la mia schiavitù: le gambe divaricate, il corpo arreso al mio saccheggio.

E nemmeno avevo pensato che volesse arrendersi a me a casa sua. Era come se non potesse trattenersi. Il suo cervello si era ribellato, ma il corpo aveva detto di sì.
Chiedendo di più.
Supplicando.

E a quel punto stavo già programmando la serata. La punizione.

Forse anche una ricompensa.

Bljad’. Mi avrebbe avuto completamente in pugno se non fossi stato attento. Già solo essendo Lucy.

Non sapevo cosa ci fosse in lei, ma questa cosa la percepivo fin dall'inizio. Nel momento in cui l'avevo vista al Black Light, l'avevo voluta. Forse riconoscevo in lei qualcosa che trovavo anche in me.

La spinta alla perfezione. All’eccellenza. Come se avesse qualcosa da dimostrare e volesse farlo bene.

Mi veniva voglia di aiutarla. Di proteggerla dal fallimento.

Al Black Light mi aveva fatto venire voglia di tirarle fuori la resa. Di dimostrarle che poteva fidarsi di me, che non l’avrei umiliata né degradata, ma che avrei pur sempre posseduto ogni sua risposta, ogni suo fremito, ogni suo orgasmo.

E avevo ancora quella voglia, nonostante le idee molto irrispettose che mi attraversavano la mente.

Si sarebbe beccata una bella fustigazione.

Probabilmente l’avrei legata, ma con qualcosa di morbido e indulgente come una cravatta di seta. La mia mano si insinuò più in basso sul suo culo. Sapere che non indossava le mutandine mi fece venire un barzotto.

Entrammo all'ultimo piano, il mio quartier generale.

Dopo l’acquisto di cinque anni prima avevo fatto ristrutturare l'intero edificio, una parte ogni anno, utilizzando solo maestranze russe. Molti vivevano proprio lì, ai piani inferiori. Davano il massimo per me perché io mi prendevo cura di loro. Pagavo bene, li aiutavo in caso di problemi e fornivo loro protezione dalla legge americana e dal mondo nel senso più ampio. Inoltre, vivevano in immobili di prima qualità per una frazione del prezzo che avrebbero pagato normalmente.

Poiché nessuno della bratva aveva famiglia, i miei brigadieri vivevano tutti su quel piano con me. Eravamo noi la nostra famiglia.

Uscirono dalle loro stanze per guardare a bocca aperta la mia principessa catturata. La sua schiena si raddrizzò ancora di più, rigida come un bastone.

«Lucy, loro sono i miei uomini. Hai già conosciuto Oleg; è il mio scagnozzo, se non l'avevi capito.»

Oleg alzò il mento in un accenno di saluto.

«Maxim è un po' come me: un risolutore.»

«Rad vstreče.» Maxim le strinse la mano. La sua lingua la parlava benissimo, ma stava al mio gioco. Nessuno le avrebbe fatto intendere di capirla, finché era lì. A meno che non avessi modificato l’ordine. La mia parola era legge nell’edificio.
«Nikolaj è il contabile.» Ovviamente per contabile intendevo allibratore.
«Dima, il suo gemello, è lo specialista informatico.» L’hacker.

«Gemelli» mormorò, lo sguardo che guizzava tra loro. Non capivo perché tutti trovassero i gemelli così affascinanti, ma quei due avevano molta più figa del resto degli uomini nell'edificio.

«Pavel è un brigadiere.»

«Cos'è un brigadiere?» Mi piaceva la velocità con cui digeriva tutto e faceva domande. Aveva una mente curiosa. Sarebbe stata dura starle tre passi avanti, ma lo avrei fatto.

«È come un capitano.»

«Un capo» disse.

«Sì, come il capo italiano.»

«E qual è il tuo lavoro? Anche tu sei un risolutore?»

Scossi la testa. «Io sono il direttore. Il Pachan della Bratva di Chicago.»

«Papà» disse Maxim con un sorrisetto.

Gli lanciai un'occhiata di avvertimento. Non avrebbe dovuto capire quello che stavo dicendo. E non ero ancora un papà. Era ancora Igor tecnicamente il papà, anche se sul suo letto di morte, in Russia.

Si guardò intorno. In origine il piano era costituito da quattro attici di oltre mille metri quadrati. Avevo abbattuto le pareti di due per farne una gigantesca villa con ali separate. «Vivete tutti qui? Insieme?»

«Sì. Siamo una famiglia.»

Maxim e Dima ne osservarono divertiti la reazione. Gli piacevano i miei giochetti, e il fatto che l’ultimo fosse rivolto a una bella donna lo rendeva ancora più divertente. Averla lì a condividere il nostro spazio sarebbe stata una novità per tutti noi.

«Vieni.» La presi per il gomito e la guidai verso la mia suite padronale, dove Oleg aveva già portato le sue valigie. Come l’intero ultimo piano, era stata arredata nel lusso totale: ogni arredo era di fascia alta, i pavimenti in quercia brasiliana, i ripiani del bagno e la doccia in delicato quarzo bianco con riflessi dorati e vortici viola.

Si guardò intorno dubbiosa. «Questa è la tua stanza?»

«Sì. Alloggerai qui. Così potrò occuparmi delle tue esigenze.»

«Voglio una stanza mia.»

La richiesta non mi sorprese affatto. La verità era che ne avevo discusso. Averla nel mio spazio ci avrebbe messi alla prova entrambi.

Ma la volevo sotto pressione. Volevo che vivesse sotto il mio costante governo benevolo finché non mi avesse accettato.

Almeno durante la gravidanza.

Mantenerla permanentemente avrebbe potuto non essere nel più maggior interesse di nessuno dei due.

«Resterai qui con me» dissi con fermezza. «Ti lascerò uscire dalla stanza solo se seguirai bene le mie regole.»

Le sue narici si allargarono e gli occhi lampeggiarono, ma non disse niente. Non era tipo da fare i capricci. Non avevo dubbi che, una volta scelta la sua battaglia, sarebbe stata ben armata. Avrebbe ottenuto più informazioni prima di fare la sua mossa.

Eravamo molto simili.

Stavamo giocando una partita a scacchi. Avrebbe potuto essere piacevole per entrambi, anche se solo uno dei due – io – avrebbe vinto sempre.

Si udì un colpetto alla porta.

«Entra.»

Valentina, la governante, entrò con una brocca di acqua ghiacciata piena di cetrioli affettati e un piatto di stuzzichini: quadratini di formaggio e cioccolatini, uva e ciliegie fresche. Versò un bicchiere dell'acqua curativa per Lucy e glielo porse.

«Bevi tanta acqua. È importante per il bambino» disse in russo, scuotendo la testa e sorridendo.

«Lei è Valentina. È la nostra governante. Ci prepara parte del cibo, ma abbiamo anche uno chef per i pasti principali.»

Lucy le prese il bicchiere. «Grazie.»

Un altro colpo risuonò alla porta ed entrò Oleg con il lettino da massaggi per gravidanza che avevo acquistato in giornata. Natasha, la massaggiatrice residente, lo seguì con un cesto di provviste e un sorriso per me. Era contenta dell’acquisto del nuovo lettino perché così lo avrebbe usato, così come della probabile richiesta di massaggi quotidiani per la mia prigioniera.

Parlava benissimo la lingua di Lucy – quella venticinquenne era cresciuta in America – ma si esibì alla grande: le si rivolse in russo. «Ciao. Tu devi essere Lucy. Congratulazioni per la gravidanza. Sono felicissima di aiutarti. Lavoro con molte donne incinte perché mia madre fa l'ostetrica.»

Lucy aggrottò le sopracciglia.

«Lei è Natasha, la tua massaggiatrice.»

Fece un passo indietro. «Oh no. No. Grazie, ma devo rifiutare.»

Inarcai un sopracciglio. Si era dimostrata tanto disposta ad accettare il piacere dalle mie dita che non mi aspettavo resistenze. Non ero sicuro se essere lusingato che le piacesse così tanto il mio tocco o costernato che non fosse disposta ad accettare un semplice piacere che potevo fornirle.

«Voglio che lo stress del trasloco sia rimosso» dissi con fermezza. «Il bambino non dovrebbe soffrire solo perché i suoi genitori sono in conflitto.»

«Ho detto di no» disse Lucy, altrettanto fermamente. «Non mi piacciono i massaggi.»

«Perché no, kotënok?»

Guardò Natasha. «È sicuro, in gravidanza?»

«La madre di Natasha fa l'ostetrica. Massaggia continuamente le donne incinte. Sa esattamente di cosa hai bisogno.»

Natasha scosse la testa, diligentemente. «Dille che ho una certificazione speciale per la gravidanza e il massaggio linfatico, così come per il massaggio con pietre calde, riflessologia, digitopressione, tui na, cranio sacrale, reiki, trigger point, watsu, zero balancing e access bars. Se è nervosa, oggi limitarmi alla guarigione energetica lontano dal corpo.»

Tradussi per Lucy, che si succhiò il labbro inferiore tra i denti, come incerta. Il fatto che non le piacesse essere toccata da una sconosciuta non avrebbe dovuto sorprendermi. Mi fece sentire un po' compiaciuto per la facilità con cui si era arresa a me nel suo appartamento. Non me lo sarei mai aspettato. Era stato più difficile ottenere una risposta al Black Light, e stavolta eravamo in conflitto. Forse pensava a me con affetto.

«Il massaggio ti piacerà» dissi con fermezza. «Sdraiati e rilassati. D'ora in poi mi prenderò cura delle tue esigenze.»

«Ho bisogno di dormire nel mio letto» scattò. «Ho bisogno della mia libertà.»

«E io di tenerti vicina» dissi dolcemente, fermandomi per voltarmi alla porta. «È un compromesso.»

Sbuffò. «Le concessioni unilaterali non sono compromessi, Ravil.»

Le rivolsi un sorriso pericoloso. Mi piaceva quando tirava fuori gli artigli. «Gli ultimi cinque mesi al buio sono stati una mia concessione. Mi ripaghi così.»

Vidi la sua maschera di ghiaccio scivolar via mentre chiudevo la porta e sorrisi.

Il piano stava andando esattamente come previsto.

Lucy

Uno splendido attico con vista sul Lago Michigan, un massaggio e cioccolatini. Di cosa avrei dovuto lamentarmi?

Niente, se non fossi stata una prigioniera. Se non mi fosse stato tutto imposto da un pazzo.

Ma no, non era vero. Ravil non era pazzo. Stava giocando. Mi stava dando una lezione. Una lezione morbida, senza dubbio perché ero incinta. Eventuali stress sarebbero arrivati dritti al bambino.

Ero grata che almeno lo capisse.

Non era un pazzo.

Guardai la bella massaggiatrice dai capelli rossi. Aveva i capelli biondo fragola e la pelle pallida e senza lentiggini. Immaginai che fosse sui venticinque anni.

Dubitavo delle sue capacità. Potevo confidare che la preparazione e la certificazione russe fossero uguali alle nostre? Sapeva davvero massaggiare una donna incinta in sicurezza?

Ma a parte la barriera linguistica, sembrava perfettamente capace. E americana anche, con quei pantaloncini corti e la maglietta con le maniche ad aletta, nonché un'ala di uccello tatuata sui bicipiti.

Preparò il lettino, che aveva degli incassi di gommapiuma per il seno e la pancia, e lo coprì con due lenzuola. Mi alzai e la guardai goffamente. Non riuscivo a lasciar perdere la fastidiosa sensazione che mi sarebbe accaduto qualcosa di brutto, anche se lei sembrava perfettamente affidabile.

Ma ero prigioniera del capo della bratva di Chicago, quindi la sensazione non era ingiustificata.

Chiacchierava con me in russo, con un sorriso tranquillo e confortante. Andò nel bagno privato e chiuse la porta, indicando me e l’asse coperta come dandomi istruzioni. Dopo che si fu chiusa dentro, mi resi conto aspettava che mi spogliassi e accomodassi sul lettino.

Chiusi gli occhi e mi sforzai di espirare. Al diavolo.

Tanto valeva divertirsi. Se Ravil voleva contrastare lo stress inflittomi con un massaggio, meglio non dimostrarsi tanto dispettosa da danneggiarmi con le mie mani.

Mi tolsi vestito e reggiseno. Le mutandine erano ancora sul pavimento di casa mia, pensiero che mi fece digrignare i denti. Non avrei dovuto permettergli di farmi quelle cose.

Le volevi, sussurrò una vocina.

Ed era vero. Anche ora, solo togliermi i vestiti nella stanza di Ravil mi fece bagnare. Come se il mio corpo avesse saputo che finalmente avrebbe ricevuto l'attenzione che bramava così disperatamente.

Attenzione che nulla aveva a che fare col massaggio.

Ma ero sicura che mi sarei goduta anche quello. Mi arrampicai sotto il lenzuolo e mi posizionai a faccia in giù sull’asse, allineando la pancia allo spazio disponibile.

Natasha bussò alla porta e la spalancò chiedendo qualcosa in russo.

Mormorai nella culla del viso.

Una musica da spa partì da una cassa che aveva posizionato sul comò.

All'improvviso avrei voluto capirla. Avrei voluto ottenere da lei informazioni su Ravil. Da quanto tempo lo conosceva, come trattava la sua dipendente, com'era. Tutto quello che c'era per verificare o confutare le idee che già mi ero fatta su di lui.

L'immagine di lui che soffocava l'uomo al Black Light mi tornò in mente.

Ravil era un violento. Aveva minacciato di tagliargli la lingua se avesse parlato di nuovo di me in modo irrispettoso.

Ma con me era stato gentile.

Molto più gentile della maggior parte dei dominatori che avevo visto in scena con i loro sottomessi al Black Light. Non c'erano state canne né fruste pesanti. Non mi aveva lasciato segni sulla pelle né mi aveva umiliata troppo. Anzi, era stato misurato. Controllato. Aveva preso in considerazione le mie risposte adattandovisi. Eravamo esistiti all'interno della stessa versione della realtà.

Il solito dibattito interno contro cui combattevo ogni volta che avevo ripensamenti sulla decisione di non dirgli della gravidanza. Meritava di saperlo? Era sicuro per lui saperlo?

Certamente non si sentiva al sicuro ora.

Non riuscivo a decidere se ciò significasse che nasconderglielo fosse stata la scelta giusta o sbagliata. Sarebbe stato ragionevole se fossi stata diretta e onesta fin dall'inizio. O era inevitabile usare le maniere forti?

Sentii lo schiocco di un coperchio e lo sfregamento dei palmi di Natasha, che poi mi toccò. All'inizio sussultai. Fino al momento del precedente assalto – seduzione – di Ravil, non mi toccavano da mesi. Sicuramente non in modo piacevole. Certo, una volta alla settimana abbracciavo mia madre quando la incontravo al centro di riabilitazione di papà, ma tutto qua.

I miei muscoli si contrassero e strinsero sotto ai suoi movimenti lenti, ma alla fine mi rilassai. I nervi tesi si calmarono e la tensione si allentò a poco a poco. Era brava. Molto brava. Non scavò in profondità né mi massacrò per sciogliere le contratture, ma le trovò tutte comunque, e in qualche modo le persuase delicatamente a mollare.

A poco a poco mi rilassai e alla fine cominciai a scivolare dentro e fuori da un sonno leggero. Mi svegliai con la sensazione di essere stata molto, molto lontano quando mormorò qualcosa in russo. Non avevo fatto sogni inquietanti e frenetici, tipo quelli in cui cercavo di mettermi alla prova allo studio legale o in tribunale, o tipo quelli in cui ero al mio matrimonio ma non riuscivo a trovare lo sposo.

Nulla di tutto ciò. Solo un profondo senso di pace.

Di me.

Fu come tornare a casa.

Mi toccò leggermente la spalla e mormorò di nuovo.

Il massaggio era finito. Entrò in bagno e chiuse la porta, e io mi presi qualche minuto per orientarmi e trovare la strada per alzarmi dal lettino. Aprii una delle mie valigie e tirai fuori un pigiama. Non aveva senso rimettermi i vestiti da lavoro, specialmente dato che Ravil non mi avrebbe lasciata uscire da lì.

Natasha emerse e gesticolò indicando la poltrona imbottita vicino alla finestra. Quella con una magnifica vista sull'acqua. Mi indirizzò lì e riempì di nuovo il mio bicchiere d’acqua per poi porgermelo.

«Grazie» dissi, anche se non ero sicura che mi capisse. «È stato magnifico. Sei davvero una guaritrice dotata.»

Sorrise, cogliendo la gratitudine, che capisse o meno le parole.

Tolse le lenzuola dal lettino e le piegò, portandole nella cabina armadio dove le appoggiò contro a un muro. Disse qualcos’altro in russo e mi salutò andandosene, portando in spalla il suo grande cesto di vimini con le lenzuola, l'olio per massaggi e la cassa.

«Arrivederci. Grazie ancora. Scusa se ho dubitato di te.»

Fece un sorriso malizioso prima di salutare di nuovo e poi se ne andò.

Bene, molti aspetti positivi. Avrei dovuto concedermi un massaggio mesi fa. Era puro paradiso.

Ravil

I ragazzi erano riuniti in soggiorno quando uscii; senza dubbio mi aspettavano. La televisione era accesa, ma Oleg la abbassò quando entrai.

Dima aveva già estratto dalla borsa il portatile di Lucy e ci stava facendo le sue cose. Per rendermi accessibile ogni contenuto. Per inserire chip di tracciamento nel pc, nella borsa e nel telefono, nel caso in cui in qualche modo fosse riuscita a scappare.

«È bellissima» osservò da una poltrona il gemello Nikolaj continuando a parlare in russo come gli avevo ordinato.

Un filo di irritazione mi attraversò. Non ero un tipo geloso, ma probabilmente possessivo. Non che credessi nemmeno per un microsecondo che uno di quelli là avrebbe mai toccato ciò che mi apparteneva. Eravamo fratelli d'armi e io ero il loro pachan. La lealtà tra di noi era profonda.

«Farai dei bei bambini» concordò Maxim in inglese.

«Russkom» ringhiai.

Alzò gli occhi al cielo ma continuò nella nostra lingua madre. «Prima ordini a tutti di parlare solo inglese. Ora l'intero edificio deve parlare russo. E per cosa? Per quanto? Rendici parte del tuo piano, Ravil.»

Infilai le mani in tasca per seppellire l’irritazione. Non mi sedetti con loro. Non ancora. Stavano aspettando indicazioni dal capo. «Lei è mia prigioniera fino alla nascita del bambino. Sul dopo, non ho deciso.»

«Può andare solo in un modo» affermò Maxim. Si sdraiò sul grande divano rosso, i piedi appoggiati sul pouf, le mani dietro la testa. Come me, prediligeva i vestiti costosi – button down e pantaloni. Scarpe lucide.

Gli altri indossavano un abbigliamento più casual: magliette e jeans o pantaloni color cachi.

Inarcai un sopracciglio. Normalmente apprezzavo il suo contributo. Era un leader e uno stratega nato. Se non fosse stato cacciato da Igor, sarebbe stato il prossimo in linea come pachan per l'intera organizzazione alla morte del primo. «E come?»

«Devi tenerla. Sedurla. Farla innamorare. Altrimenti... è un avvocato difensore di alto potere. Ha l'intelligenza e le conoscenze per abbatterci. Non vorrai mica trasformarla in un'arma contro di noi…»

Mi strofinai il viso. «Niet.»

Maxim aveva ragione, ma avrei voluto prenderlo a pugni alla gola.

Farla innamorare.
Dima ridacchiò dal suo tavolo da lavoro. Indossava una t-shirt nera con le righe luminose del codice di Matrix, il suo film preferito. Dima aveva un ufficio, ma aveva insistito per creare una postazione di lavoro lì in modo da guardare la televisione con gli altri mentre decifrava qualsiasi codice fosse mai scritto. «Farla innamorare potrebbe non essere difficilissimo.»

Maxim abbassò i piedi e si sporse in avanti. «Cos’hai trovato?»

«Beh, il Kindle era pieno di storie d'amore vichinghe, tutte comprate dopo San Valentino. Prima di allora leggeva solo saggistica.»

«Quindi?»

Alzò le spalle. «Ha un debole per l’idea di essere rapita da grossi biondoni. Ma c’è di meglio. Molto meglio. Indovina cosa cerca su Google la tua piccola signora a tarda notte quando è sola?»

La pelle d'oca mi punse la pelle. «Che cosa?»

«È una cosa buona. Ti piacerà.» Si guardò intorno, sorridendo e scuotendo le sopracciglia a tutti noi per assicurarsi che stessimo ascoltando.

«Che cosa?» scattai con impazienza.

«Aspetta.»

«Dima» ringhiò Nikolaj.

«Dicci!» Maxim alzò la voce.

«Sculacciate… russe!» gridò infine con gioia.

La stanza esplose in scherni e risate.

Una parte di me avrebbe voluto distruggerli tutti per aver riso alle sue spalle, ma ero troppo contento dell'informazione.

La mia adorabile avvocatessa aveva sentito la mia mancanza.

Quando l'avevo dominata al Black Light, era la prima volta che si metteva alla prova con il sadomaso. Si stava riprendendo e la sua amica di Washington l'aveva convinta ad andare. Era arrivata vestita in modo completamente sbagliato ma perfetta, con un abito rosso a portafoglio. Nell’istante in cui l'avevo vista avevo capito di desiderarla, ma quella era la serata della roulette. I partner venivano scelti tramite la pallina. Avevo programmato di comprarla da chiunque l’avesse ottenuta per l’accoppiamento, ma il caso aveva voluto che Lady Fortuna – il nome d’arte di Lucy – venisse abbinata a me.

«L'hai sculacciata, Ravil?» Pavel sembrava leggermente allarmato. Era più giovane, sui venticinque. La sua esperienza sessuale avrebbe potuto non essere così variopinta come la mia.

Tutti i loro sguardi si fissarono su di me in attesa della risposta.

Feci spallucce. «Da. Ovviamente. L'ho incontrata al club sadomaso in cui Valdemar mi ha trascinato a Washington. L'ho sculacciata a morte. Sul mio grembo con un plug nel culo. È stato più bollente dell’inferno.»

«Ah sì. Il club esclusivo dove si paga per frustare le donne» disse Maxim ripetendo le stesse parole che avevo detto quando mi ero lamentato di doverci andare.

«Proprio quello.»

«Immagino che tu abbia fatto molto di più che sculacciarla» osservò Nikolaj.

«Basta.» Lucy poteva anche essere mia prigioniera, ma non mi piaceva che non venisse rispettata.

I miei uomini cercarono di non ridere, serrando le labbra e lanciandosi sguardi da scolaretti.

«Quindi le darai ciò di cui ha bisogno e la farai innamorare. Quando nascerà il bambino, lei resterà» riassunse Maxim offrendo la sua opinione sulla situazione.

Strinsi le labbra. «Vedremo.»

«Sono l'unico stronzo qui a tener presente che le famiglie sono contrarie al codice?» chiese Nikolaj. Lui non era stato separato dal gemello all’ingresso nel gruppo, nonostante l'editto, ma erano stati un'eccezione.

L'allegria defluì dalla stanza. Oleg si sedette in avanti, una piega sulla fronte.

Non risposi. Naturalmente ci pensavo fin dall'inizio. Ma ero arrivato al punto in cui tendevo a crearmi regole mie.

Cosa che però mi avrebbe esposto all’eventualità di una sostituzione. Infrangere il codice significava temere che mi piazzassero un coltello nella schiena per mandarmi via.

«Insomma, non ti sto sfidando, Ravil. Lo sai.» Assunse un tono conciliante. «Io sono con la mia famiglia.» Inclinò la testa verso Dima. «Che però fa anche parte della confraternita.»

Gli feci un cenno.

«A Mosca potrebbero sfidarti» disse Maxim. «Soprattutto se Igor muore.»

I palmi carnosi di Oleg formarono dei pugni, il cipiglio sulla sua fronte aumentò. Pensai che significasse che era dalla mia parte, ma era difficile a dirsi. Era stato fregato dalla sua stessa cellula, in Russia. Non era stato altro che leale con me, ma non sapevo cosa provasse riguardo alla violazione del codice. E poi, beh, Oleg non comunicava molto.

«Sarebbe meglio» iniziò Pavel, poi alzò entrambe le mani in segno di resa «Non sto dicendo che dovresti... ma sarebbero più al sicuro se la lasciassi stare? Se mantenessi una certa distanza tra di voi? Potresti tenerla come elemento secondario, come Igor con la sua amante e sua figlia.»

«Lei resta» ringhiai.

Il mio bambino. La sua bella madre. Nel mio palazzo.

Come dev’essere.

«Li proteggerò. E se qualcuno di voi…» Tutti iniziarono subito a scuotere il capo. «…intende sfidarmi a infrangere il codice…» Piazzai uno sguardo gelido su tutti, anche se chiaramente non lo avrebbero fatto. «Bene. Allora mi coprirete le spalle.»

«Sempre» mormorò Dima.

«Da» concordò Nikolaj. Anche Maxim e Pavel diedero il loro assenso.

Oleg annuì.

«Grazie.»

Mi sedetti sul divano accanto a Maxim. «C'è altro di interessante sul laptop?» chiesi a Dima.

«Puoi vederlo da solo.» Me lo porse; era aperto accanto a lui. «Ti ho creato un link a tutto, ma ecco alcuni dei siti che ha visitato, se vuoi qualche dritta.» Sorrise quando dalla macchina uscì il rumore di uno schiaffo e quello di un lamento; lo girò per mostrarci una scena porno amatoriale con una ragazza piegata sullo schienale di un divano.

«Fallo ancora e morirai» dissi freddamente. «Non permetterò che venga schernita.»

Dima divenne serio all'istante. «Scusa. Ovviamente non si ripeterà.» Abbassò la testa, ma non prima che vedessi le sue labbra contrarsi.

Coglione.

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