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Inviti irresistibili

Capitolo 4

JULIETTE

"Signora? Signora?" Una voce mi svegliò e io mi alzai di scatto dal letto.

Strofinandomi via la sonnolenza dagli occhi, vidi la stessa cameriera di prima, in piedi, vicino alla spalliera del mio letto e con un vassoio in mano.

Doveva avere circa cinquant'anni ed era sorprendente vedere una donna di quell'età non mostrare alcuna emozione.

"Mi dispiace svegliarla, ma devo assicurarmi che mangi il suo cibo". Posò il vassoio davanti a me e si inchinò prima di andarsene.

Il mio stomaco brontolò alla vista del cibo.

Aprii il coperchio del piatto e subito inalai un forte aroma di caffè e uova strapazzate. Senza perdere altro tempo, presi la forchetta e iniziai a mangiare come una pazza, assaporando ogni boccone e sorso.

Una volta finito, appoggiai il vassoio sul pavimento e mi tolsi l'asciugamano dai capelli.

Erano ancora umidi. Mi diressi all'armadio e tirai fuori un pettine. Dopo aver faticato per districarli, li pettinai di lato e li legai con un elastico.

"Cosa devo fare adesso?" Mi chiesi, mentre iniziavo a camminare per la stanza.

Guardai l'orologio a muro. Era già sera e cominciavo a sentirmi soffocare. Chi è che chiuderebbe mai qualcuno in una stanza senza finestre?

Decisi di fare l'unica cosa che avrebbe potuto aiutarmi.

Battere sulla porta finché qualcuno non mi avrebbe fatta uscire.

"Fatemi uscire!" Urlai, prendendo a pugni la porta come impazzita.

"Aprite la porta! C'è nessuno? Fatemi uscire!"

"Ehi! Mi sentite? Fatemi uscire, per favore!" Gridai a squarciagola.

Sbattei forte. Se ci fosse stato qualcuno là fuori, si sarebbe irritato e mi avrebbe fatta subito uscire.

"Aprite la p..."

Fui interrotta quando vidi la maniglia che girava, così feci un passo indietro per permettere alla persona fuori di aprire.

Mi ritrovai davanti l'assassino in persona, con un'espressione arrabbiata sul volto, quasi pronto a uccidermi.

"Perché mai sbatti contro la porta come una folle?" Fece dei passi minacciosi verso di me.

Decisi di non mostrargli che avevo paura di lui. Non aveva bisogno di saperlo.

"Beh, perché qualcuno mi ha chiuso in questa stanza senza finestre e mi sento soffocare", risposi con sicurezza, mentre lo fissavo.

Indossava gli stessi vestiti di prima, ma senza la giacca.

"Soffocare, eh? Non morire. Non c'è bisogno di abbaiare come un cane per esprimerti". Mi insultò.

"Cosa hai appena detto? Un cane? Mi hai chiamata cane?" Mi sentii offesa. Non avrei lasciato che mi insultasse così facilmente.

Lui strinse gli occhi, ma non disse nulla.

"Va bene, allora". Quindi scoppiai a ridere malignamente. "Senti chi parla".

Questo gli fece alzare le sopracciglia.

"Il cane in persona che dà del cane agli altri".

Nei suoi occhi si accese pura rabbia.

"Che cosa hai appena detto?" Chiese, minaccioso.

"Sei anche sordo?" Domandai io, prendendolo in giro.

"Basta!"

Un istante dopo, mi scontrai con il suo petto mentre lui mi afferrava le braccia e mi tirava con rabbia a sé.

"Non osare parlarmi in questo modo. Hai capito?" Strinse la presa, urlandomi contro.

"Altrimenti?" Replicai. Sapevo che stavo giocando con il fuoco.

"Non dimenticare che la tua famiglia è ancora sotto il mio tiro. Mi basta dare un semplice ordine e saranno finiti". Sogghignò, mentre mi spingeva all'indietro.

Lacrime mi riempirono gli occhi e il mio odio per lui crebbe ancora di più.

"Non oseresti". Riuscii a dire.

"Mettimi alla prova". Mi minacciò lui, con un'espressione neutra al fissare i miei occhi lucidi.

"Perché mi stai facendo questo? Cosa ho fatto per dover subire tutto ciò?" Chiesi, mentre nuove lacrime iniziavano a scorrere sulle mie guance.

Odiavo sentirmi così vulnerabile davanti a lui. Non mi ero mai sentita in quel modo in tutta la mia vita. Tuttavia, quell'uomo aveva influenza su di me, faceva scaturire tante strane emozioni.

"Per favore, almeno dimmi qual è stato il mio errore?" Singhiozzai, mentre mi appoggiavo al muro per avere un sostegno.

"È meglio se tieni la bocca chiusa e fai quello che ti viene detto", disse lui, con nonchalance.

"Cosa pensi che io sia? Eh?" Adesso ero di nuovo arrabbiata.

"Chi pensi che sia? Una cameriera o una serva che puoi comandare a bacchetta, forse?" Strillai, asciugandomi le lacrime con i palmi delle mani.

"Tu sei qui grazie a me", ribatté, scandendo ogni parola.

"Quindi non dimenticare quello che posso farti. Dovresti essere felice di essere ancora viva e di avere un posto dove stare. A meno che tu non preferisca che chiami i miei uomini e ti chiuda in cantina senza cibo".

Le sue parole mi fecero tremare di paura.

"Chi sei tu?" Riuscii a chiedere.

"Non deve interessarti, ma diventerò il tuo peggior incubo se non ti comporterai bene", rispose, gelido.

"Non capisco perché vuoi sposare me. Non hai già avuto la tua vendetta? L'hai ucciso. Emmett! Davanti ai miei occhi. Ora basta. Voglio tornare dalla mia famiglia". Cercai di farlo ragionare.

"Torna nella tua stanza e dormi". Mi diede le spalle e si incamminò, comportandosi come se non avesse sentito quello che avevo appena detto.

"No! Fermati!" Urlai, quando lo vidi in procinto di chiudermi di nuovo nella stanza.

Si bloccò a metà strada dalla chiusura della porta e mi guardò con un sopracciglio alzato.

"Non chiudermi qui dentro", lo implorai.

Lui sospirò, chiuse gli occhi e scosse la testa, mormorando qualcosa sottovoce.

"Vedi? Comportati bene e non ti chiuderò più a chiave". Fece per chiudere di nuovo la porta, ma io lo fermai, correndo verso di lui e prendendogli la mano.

"No! No! Ti prego! Non chiuderla. Mi sento soffocare". Lo implorai, mentre gli tenevo la mano sulla maniglia per impedirgli di chiudere la porta.

Mi fissò per qualche secondo, poi il suo sguardo si spostò sulle nostre mani. Mi resi conto di quello che avevo appena fatto e allontanai immediatamente le mie dita dalle sue.

Lui si guardò intorno, mentre io infilavo alcune ciocche di capelli sciolti dietro l'orecchio.

"Va bene! Non la chiuderò a chiave, ma lo farò se dovessi ricevere un comportamento indesiderato o sciocco da parte tua", acconsentì, così io annuii in silenzio. Quindi lui si girò e se ne andò, senza degnarmi di uno sguardo.

Tirai fuori l'aria che non sapevo di aver trattenuto e chiusi piano la porta. Ero soddisfatta che, almeno, non fossi più chiusa dentro. Non avevo intenzione di scappare, ma le stanze chiuse mi avevano sempre fatta sentire claustrofobica.

Inoltre non avevo intenzione di scappare così presto. Un giorno l'avrei fatto, ma non ora. Non prima di aver ottenuto ciò che volevo.

"Risposte e vendetta", mi dissi, con la determinazione che avrei avuto quello che desideravo.

Quindi chiusi la porta e tornai a letto.

Tuttavia, la prima cosa che volevo fare era contattare la mia famiglia. Dovevo sapere cosa era successo dopo che mi avevano portata via, soprattutto a Emmett.

Il mio cuore soffriva al pensiero di quello che poteva essergli accaduto. Feci dei respiri profondi per calmarmi.

Non volevo versare altre lacrime inutili. Volevo vendicarmi un po' alla volta, invece, per tutta la sofferenza e il pianto.

"Vedrai, Zachary. Non mi interessa perché hai fatto quello che hai fatto, ma la pagherai".

"Questa è la mia promessa", giurai, mentre mi sdraiavo sul letto e cercavo di rimettermi a dormire.

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