
I Prescelti 1: Rapite
Sette umani innocenti vengono rapiti dalle loro case. Imprigionati in un'astronave lanciata verso l'ignoto, devono collaborare per combattere e tornare sulla Terra. Ma i loro carcerieri alieni sono enormi, brillanti e fieramente determinati a possederli come compagni.
Riusciranno i sette nel loro intento o saranno destinati a una vita tra le stelle?
Chloe e Tor
Le foglie frustavano il viso di Chloe mentre correva a perdifiato tra gli alberi. I suoi piedi nudi battevano forte sul terreno morbido. I polmoni le bruciavano, ma il terrore e il panico riuscivano a rendere sopportabile quel dolore. Non era una gran corritrice, ma almeno era riuscita ad attraversare il campo aperto senza farsi prendere, quel maledetto campo dove avrebbero potuto afferrarla facilmente e farle qualsiasi cosa. Sentiva le mucche muggire spaventate, i loro zoccoli rimbombavano pesanti sul terreno mentre anche loro cercavano di fuggire. Sperava davvero che stessero bene.
Aveva visto molti film e letto abbastanza libri. Sapeva cosa poteva succedere agli animali e alle persone in situazioni come quella. Con un singhiozzo strozzato, continuò a correre. I piedi cominciavano a farle male per il freddo della terra. Era notte fonda e la temperatura era rigida. La sua pelle era gelata, ma quasi non se ne accorgeva, mentre il calore del sangue in tumulto le pulsava forte nelle vene. Gridò quando qualcosa le tirò i capelli. Era solo un ramo secco. Pentita per quell’urlo, si fermò a liberarsi.
Doveva stare più attenta. Non poteva fare rumore o l'avrebbero trovata! Cercò di controllare i singhiozzi. Cosa volevano da loro? Cosa potevano mai volere da una semplice famiglia di contadini come la loro? Non erano nessuno!
«Corri!» le disse suo padre mentre caricava il fucile. «Corri verso gli alberi. Rimani al buio. Non farti vedere». Non aveva nemmeno avuto il tempo di prendere un maglione o delle scarpe. Era corsa fuori dalla porta sul retro, con quella terribile luce che brillava dall’alto.
Una luce accecante la fece crollare a terra, sulle mani e sulle ginocchia. Gli alberi non la stavano aiutando. Non offrivano protezione. Non c’era alcuna sicurezza. Il suo vicino più vicino era a chilometri di distanza. Era sola. L'avevano presa. La luce era così brillante che faceva sembrare l'erba argentata. I suoi capelli castani sembravano bianchi.
Le sue spalle tremavano. Il petto le faceva male. Rimase in ginocchio stringendo i denti, aggrappandosi a quel poco di forza che le restava. Un filo di saliva le pendeva dal labbro. Le lacrime cadevano a terra. Le orecchie le fischiavano nella notte silenziosa.
Tutto ciò che Chloe riusciva a fare era restare lì, inerme, la testa ciondolante, molle e inutile, mentre chiudeva gli occhi per sfuggire alla verità di quella situazione. Come se chiudendo gli occhi potesse far sparire tutto. La luce era brillante dietro le sue palpebre. Poi sparì. Aprì gli occhi e guardò il terreno passare sotto di lei. Vide gli stivali che calpestavano l’erba con un rumore sordo. Sentì il suo respiro.
Era sicuramente un uomo. Forse non era affatto un alieno. Forse era tutta una qualche cospirazione governativa! E quell'uomo era una specie di soldato. «Lasciami andare», osò mormorare. Lui non rispose.
Gli alberi finirono improvvisamente, così come la sua fuga. Si fermò di colpo, barcollando, e gridò. «No!» Erano lì, altri come lui. Proprio come lui. E dietro di loro, c'era quella che poteva descrivere solo come un’astronave. Nessuna luce brillante stavolta, ma alla luce della luna riusciva a vederla chiaramente. Enorme. A forma di disco. Fatta di metallo e vetro.
Il cuore le tremò nel petto. Si voltò per scappare di nuovo, ma perse l’equilibrio. Trattenne il respiro mentre il terreno si avvicinava al suo viso. Ma non stava cadendo. Era stata presa. L'uomo enorme l'aveva raggiunta. La teneva sotto il braccio come una valigia, mentre lei si contorceva, scalciava e urlava.
Con l’altra mano si premeva ancora l’inguine, zoppicando verso i suoi compagni e l’astronave in attesa. Le loro risate le rimbombavano nelle orecchie. Ridevano! Ridevano di lei!
«Mettimi giù!» urlò, disperata. In mezzo a quelle risate, stavano parlando in una lingua che Chloe non riusciva a comprendere. La cosa la fece rabbrividire. Non erano americani. Chi erano?
«No!» gridò. Il suo rapitore rispose qualcosa a tono, la voce profonda e irritata, mentre saliva su una rampa metallica ed entrava nel cuore dell’astronave. Cercò di combattere. Cercò di colpirlo, di contorcersi, di scalciare, ma niente riuscì a fargli allentare la presa. Aveva chiaramente imparato la lezione dalla prima volta.
Alla fine, tutto ciò che poté fare fu cercare di riprendere fiato, penzolando esausta nel suo braccio, mentre gli altri uomini, massicci e misteriosi, la seguivano all’interno. Le porte dell’astronave si chiusero con un tonfo alle loro spalle.
«Zitto!» sbottò Tor.
«Sei sicuro che la ragazzina non sia troppo per te?» ribatté Rigna, sogghignando.
Tor gemette per il dolore ai testicoli. Lei lo aveva colpito con forza, e non aveva nemmeno avuto il tempo di riprendersi, costretto a inseguirla di corsa prima che gli altri riuscissero a catturarla. Non si aspettava tanta resistenza da una creatura così minuta e apparentemente fragile.
«Vuoi una mano?» ghignò Moose, allungando una mano verso i capelli della ragazza. La ragazza urlò. Tor la strattonò via. «Trovatene una tua!» Moose rise. Gli altri scuotevano la testa, sogghignando, mentre si allontanavano lungo il dedalo di corridoi verso le rispettive destinazioni.
Tor si guardò alle spalle. Controllò se qualcuno lo stava seguendo mentre si dirigeva verso il recinto. Nessuno osava. La ragazza si agitava ancora, anche se ormai debolmente. Tor scosse la testa, irritato con sé stesso. Solo perché era una creatura primitiva e di piccola taglia, non significava che non potesse causare danni seri. Avrebbe dovuto fare più attenzione.
L’astronave ebbe un lieve sussulto mentre si staccava dal suolo. Mancava poco all’arrivo sull’astronave madre, dove avrebbe potuto farla controllare. Era fondamentale che non fosse malata o ferita. Sembrava fredda. L'ultima cosa che voleva era che morisse. Sarebbe passato molto tempo prima di poterne avere un'altra come lei… se mai ci fosse riuscito. Era già stato fortunato che il capitano gli avesse concesso quell’occasione.
Visitare altri pianeti era sempre un rischio, per quanto breve o «innocuo» potesse sembrare l’incontro con i nativi. Lei sembrava di nuovo troppo floscia, così le diede un’altra scossa. Le porte si aprirono con un sibilo mentre entrava nella sala di sorveglianza del recinto. Lo chiamavano «recinto», ma in realtà era una piccola area di detenzione per prigionieri e criminali.
Al momento, veniva usata per ospitare gli abitanti di Rictor 5 catturati nell’ultima ora. Quasi tutti giovani. Quasi tutte donne. Clint, di turno come guardia del recinto, si alzò in piedi non appena vide Tor entrare, lanciando un’occhiata al corpo inerte che gli pendeva dalla spalla. Era alto quanto Tor, ma meno massiccio, più magro che muscoloso.
Anche lui, in quanto agente operativo di livello superiore, aveva diritto a un compagno… l’unico maschio nel recinto. «Come sta?» chiese.
«È viva», rispose Tor. Poi indicò gli altri prigionieri con un cenno del capo. «Quelli ci daranno problemi?»
«Non a noi». Clint premette un pulsante e la porta con le sbarre si aprì. Gli altri prigionieri si allontanarono rapidamente. Stavano con la schiena contro i muri mentre Tor adagiava la ragazza su una delle brande. Tor lanciò loro un’occhiata minacciosa, avvertendoli di non avvicinarsi. Erano cinque. Abbastanza da diventare un problema, se si fossero ribellati tutti insieme.
Non si mossero. Nonostante le loro origini primitive, erano abbastanza intelligenti. Si chinò un momento sulla sua femmina, esaminandola in cerca di eventuali ferite evidenti. A parte un graffio sul braccio e lo sguardo terrorizzato, sembrava stare bene.
Senza dire una parola, e con un ultimo sguardo minaccioso rivolto agli altri, Tor lasciò il recinto. La porta si chiuse dietro di lui, bloccandosi con un clic metallico.
Era difficile trovare il coraggio ora che conosceva la verità. Cosa volevano da lei? Dove la stavano portando? Quali cose brutte l'aspettavano? Ripensò a tutti gli articoli di giornale, alle riviste, ai film e ai libri letti: esperimenti, mutilazioni, torture...
L'elenco era infinito. Ma se fossero stati buoni? Alcuni alieni nei film lo erano. Però, perché qualcuno di buono l’avrebbe portata via dalle persone che amava? Ricordò le loro risate. Non sembravano affatto buoni.
Si estendeva per tutta la lunghezza e l'altezza di una parete. Aveva la sensazione che non fosse affatto uno specchio. «Possono vederti», sussurrò una voce. Chloe si voltò rapidamente verso la voce e si alzò, indietreggiando mentre una donna usciva dall'ombra.
«Quegli alieni», continuò la donna. «Possono vederti. Probabilmente possono anche sentirci». Le lacrime le rigavano le guance. Aveva del fango sul mento. Era molto più grande di Chloe, probabilmente intorno ai trentacinque anni, alta e snella. I capelli rossi tutti arruffati. Ma lo sguardo era determinato.
«Non sono a… alieni!» gridò una voce. Chloe si voltò di scatto. Riusciva a vedere tutte le persone lì con lei. Cinque in tutto: quattro donne e un uomo. Come lei, erano scalze e sembravano essere stati presi nel sonno, tranne l’uomo, che sembrava fosse stato a una festa.
«Chi siete?» chiese Chloe, indietreggiando verso lo specchio.
«Non l'hai ancora capito?» rispose una voce tagliente. «Siamo come te. Prese dai nostri letti da questi... questi…» La donna scosse la testa e si lasciò cadere su uno dei letti, le spalle magre incurvate, i lunghi capelli neri che le ricadevano sul viso. Parlava con un forte accento.
«Sei... sei americana?» chiese Chloe.
La donna la guardò e si sistemò i capelli con un gesto rapido. «Sono cresciuta in Corea, ma sono britannica».
«Io vengo dall’Inghilterra», disse la donna dai capelli rossi.
«Ci hanno presi da ogni parte», intervenne l’uomo. «Almeno, da dove era buio». Aggiunse, rivolto allo sguardo interrogativo di Chloe: «Messico. Mi chiamo Juan. E tu?»
Chloe scosse la testa. «Ch… Chloe». Si voltò per guardare verso lo specchio. «Dite che ci stanno guardando?»
«Sì», parlò la rossa.
«Cosa vogliono?»
Quando nessuno rispose, Chloe si voltò di nuovo. Juan stava guardando i suoi piedi. La rossa stava scuotendo la testa. La ragazza coreana aveva la testa tra le mani.
«Da quanto…?»
«Non molto», parlò la rossa. «Siamo qui da meno di un'ora. Io sono stata la prima…»
«Non sono a… alieni!»
«Basta, Aisha. Negare la realtà non ti aiuterà».
La ragazza chiamata Aisha era seduta in un angolo, con le ginocchia al petto, rannicchiata in una palla stretta. Aveva un foulard tirato sul viso. Guardò Chloe solo per un attimo, poi distolse lo sguardo. Le lacrime le scendevano silenziose dagli occhi.
«Io…Io non posso crederci», disse Chloe, portandosi una mano alla gola. «Mio padre, mio fratello, stavano sparando contro di loro».
«Allora sono probabilmente morti», disse una nuova voce.
«Ma vuoi stare zitta?» ringhiò Juan, sedendosi sul letto accanto alla ragazza coreana. Appoggiò la testa sulla sua spalla. La quinta persona a parlare era una donna appoggiata alla parete, accanto al gabinetto, con le braccia incrociate e la bocca serrata in una linea sottile. Aveva i capelli scuri tagliati corti, rasati quasi a zero, e dei tatuaggi che salivano lungo il lato destro del collo e scendevano sulla spalla. Era alta.
La maglietta aderente metteva in risalto un seno abbondante e una corporatura muscolosa. Guardò Chloe. «Non c'è motivo di essere ingenue». La sua voce era aspra e profonda. «Vogliono solo una cosa da noi».
«Ho detto di stare zitta, Karina. Fai solo supposizioni stupide e assurde», sbottò Juan.
«Non hai alcuna prova», aggiunse la rossa. «Non ascoltarla, Chloe».
Karina li fulminò entrambi con lo sguardo. «Io vedo la verità, anche se voi non volete farlo. Ho conosciuto abbastanza uomini nella mia vita per sapere come va il mondo».
Aisha emise un singhiozzo forte. Karina la guardò con occhi duri. «Non li hai visti? Il modo in cui ti guardano? Sembri una ragazza intelligente. Più di loro, almeno». Fece un cenno sprezzante verso Juan e la rossa. Chloe la fissò, ripensando all’uomo, l’alieno, che l’aveva rapita. La sua stazza. L’aggressività. La mascolinità evidente. Il modo in cui l’aveva guardata mentre lei giaceva sul letto… come se volesse divorarla. Quegli occhi gialli erano stati troppo intensi.
Karina le rivolse un sorriso amaro. «Esatto. Sono tutti maschi, lo sai? E noi siamo tutte donne».
«Io no!» intervenne Juan.
Karina sbuffò. «Forse. Ma tu, più di chiunque altro qui, confermi quello che sto dicendo».
Chloe guardò verso lo specchio. Iniziò a tremare. «Io… io sono ancora vergine».
Karina rise, un suono amaro e privo di gioia. «Non lo resterai a lungo».









































