Uno degli uomini più potenti d'Inghilterra, Mason Campbell, era freddo, duro e senza scrupoli. Il vento sussurrava il suo nome e faceva tremare di paura chiunque. Era noto per essere spietato e crudele, uno che non perdonava. Lauren Hart aveva appena iniziato a lavorare per lui come sua assistente e si era trovata ad avere a che fare con i suoi capricci, la sua rabbia, il suo odio e la sua arroganza. La vita sarebbe stata di certo migliore se non avesse lavorato per Mason Campbell, l'uomo che gli altri uomini invidiavano e che era desiderato da tutte le donne. Ma Mason non aveva occhi che per lei, specialmente dopo un accordo che lei non aveva potuto rifiutare.
Età: 18+
LAUREN
Dannato.
Mason.
Campbell.
L’uomo più potente d’Inghilterra.
Nessuno avrebbe voluto ammetterlo, ma era persino più potente della Regina stessa.
Talmente giovane, eppure forgiato da numerose corporazioni in tutto il mondo, possedeva più denaro di chiunque altro in quel Paese.
Il segreto del suo successo era quello di essere spietato.
Mason Campbell rideva di fronte alla morte.
Girava voce che potesse far sparire per sempre chiunque dalla faccia della Terra con un solo schiocco di dita.
E, ancor peggio, era stato nominato Uomo Più Sexy del Regno Unito per cinque anni di fila.
Non c’è nulla di più pericoloso al mondo di un uomo con soldi e sex appeal.
Di entrambi, Mason Campbell ne aveva da vendere.
Date le premesse, so che si tratta di un tipo di persona da cui sarei dovuta stare molto, molto ~lontano.~
Ma se avessi giocato bene le mie carte, quel diavolo in carne e ossa sarebbe presto diventato il mio capo.
***
“Perché non cerchi un altro posto di lavoro?” Mi chiese la mia compagna di stanza, Beth. “Sembra un impiego orribile”.
“Come fai a essere così sicura che riuscirò a ottenerlo?” Le chiesi.
Un sacco di gente voleva lavorare per la Campbell Industry, un sacco di gente provava ad avere un colloquio da loro. Soltanto una persona poteva ottenerlo e dubitavo davvero che sarei stata io.
Alcune ragazze miravano soltanto a lui, neanche al lavoro in sé.
“Non sono per niente sicura”. Beth rise e io le lanciai un’occhiataccia. “Non ci vedo nessun vantaggio a lavorare lì. Quel posto è terrificante. Non ci troveresti nient’altro che giochi di controllo e oscurità”.
Mi strinsi il cuscino al petto.
“Sai…” Beth mi guardò, con i suoi occhi smeraldo e penetranti, “darei qualsiasi cosa per essere lì, domani, soltanto per vederti tremare di paura di fronte a lui”, terminò, ridendo.
“Finiscila!” Ridacchiai, lanciandole il cuscino. “Non tremerò. Non mi fa paura”.
Lei alzò un sopracciglio in segno di sfida. “Oh, davvero? Non sei mai stata al suo cospetto. Non puoi sapere ancora come ti sentirai”.
Nervosa e un sacco a disagio, pensai, mordendomi un labbro.
“Non sarebbe una sorpresa, per te, se tornassi a casa piangendo”, le dissi.
“Avrò di sicuro i fazzoletti pronti”.
“Stronza, ti piacerebbe!” Le lanciai un’occhiataccia giocosa.
Il sorriso di Beth scomparve e lei mi fissò, seria. “Sarai bravissima durante il colloquio, Lauren. Hai un curriculum di tutto rispetto. Sono sicura che verrai scelta tu in mezzo a quel centinaio di persone.”
Le rivolsi un lieve sorriso. “Lo spero.”
Lo speravo davvero, perché era l’unico lavoro che mi avrebbe garantito un’entrata sufficiente per…
Per pagare le spese mediche di mio padre e tutti i trattamenti necessari.
Aveva un cancro al quarto stadio. Io ero l’unica persona che gli restava dopo essere stati abbandonati da mia madre quando io avevo ancora dieci anni.
Papà aveva attraversato l’inferno per crescermi. Era il mio turno, adesso, di prendermi cura di lui. Anche se ciò significava firmare un patto con il demonio.
***
La mattina venne prima di quanto pensassi.
Mi ci vollero dieci minuti per essere pronta. Raddrizzai la schiena e mi allisciai la vecchia gonna grigia che mi arrivava alle ginocchia.
Indossavo una camicetta azzurra che avevo infilato dentro la gonna. Le mie guance rosse davano un particolare luccichio ai miei occhi nocciola, che tendevano appena all’insù ed erano nascosti dalle mie folte ciglia.
Puoi farcela, Lauren, mi dissi. Quel vano incoraggiamento, però, non aiutò a calmare la mia ansia.
Chiamai un taxi e, quando diedi l’indirizzo al tassista, lui mi guardò scioccato.
Chiese di nuovo dove dovessi andare e io glielo ripetei.
“È sicura che sia il posto giusto, signorina?” Mi chiese, titubante.
“Sì”, risposi, infastidita.
Il tassista non disse nient’altro, ma di tanto in tanto mi lanciò sguardi increduli dallo specchietto retrovisore, come se non avesse potuto credere che volevo davvero recarmi in un posto simile.
Fermò la macchina sulla strada adiacente alla Campbell Industry.
Proprio quando stavo per chiedere perché non si fosse avvicinato di più all’edificio, lui mi disse: “Chiedo scusa, signorina, ma i taxi non sono permessi vicino al palazzo. Devo lasciarla qui.”
Spalancai la bocca, sbalordita, e scossi il capo.
Uscii dalla macchina e mi aggiustai la camicetta. Chiunque si fosse fermato a guardarmi avrebbe potuto notare l’ansia che trasudava dalla mia figura.
La Campbell Industry mi sovrastava. Un imponente edificio di almeno sessanta piani.
Alto, vasto e minaccioso. Superai con cautela una guardia di sicurezza all’ingresso ed entrai nel palazzo.
Mi ritrovai in mezzo a una folla di persone dai costosi abiti puliti e all’improvviso mi resi conto di cosa stavo indossando io.
Sembravano tutti avere i nervi a fior di pelle, come se stessero reggendo il peso del mondo sulle loro spalle.
Mi diressi subito alla reception, in ansia. Lì c’era una donna dai capelli rossi, con eleganti vestiti blu.
I suoi occhi nocciola mi squadrarono e la sua espressione si colorò di puro disgusto.
“La caffetteria è in fondo alla strada, signorina”, disse, con un lieve accento italiano.
“Come?” Domandai, confusa.
Lei mi fissò come se fossi stata un’imbecille.
“Non è lì che devi andare?”
“No. Sono qui per un colloquio”.
Le sue sopracciglia perfette si sollevarono e la sua bocca si incurvò verso l’alto. “Oh?”
Mi squadrò di nuovo e schioccò la lingua, prima di incontrare ancora il mio sguardo.
Volevo darle un pugno in faccia. Era certa che quello lì non fosse il mio posto. Che arroganza!
La donna fece un grosso e teatrale sospiro e indossò un sorriso finto.
“Ventesimo piano. A sinistra, troverai tutte le altre persone che sono qui per il colloquio.”
Increspai le labbra.
Stava insinuando che non avevo nessuna possibilità di ottenere il posto, dato che c’era così tanta gente che lo voleva?
Troia.
“Grazie”, sibilai.
“Buona…” Di nuovo, mi squadrò dall’alto in basso e il suo falso sorriso scomparve. “Fortuna”.
Ero già abbastanza irritata, ma cercai di calmarmi e mi feci strada verso l’ascensore. Poggiai la schiena contro il muro e chiusi gli occhi.
Davvero mi è sembrata una grande idea?
Volevo andarmene, ma sapevo che dovevo restare. Era l’unico luogo dove avrei ottenuto uno stipendio decente.
Lo stavo facendo per papà. Non mi sarei dovuta lamentare del lavoro che avevo.
Del lavoro che ho? Non hai ancora nemmeno un lavoro, non lo sai se sarai tu quella fortunata.
Serrai gli occhi e pregai che il colloquio andasse a buon fine. Non potevo permettermi di mandare tutto all’aria.
La vita di mio padre era nelle mie mani.
Andrai alla grande, calmati e credi in te stessa.
“Non esci?” Trasalii al sentire una voce maschile accanto a me.
Mi resi conto che eravamo al ventesimo piano, mormorai delle rapide scuse all’uomo con il completo grigio, più grande di me, e uscii dall’ascensore.
La parete a sinistra era costituita da una grande vetrata che dava sul panorama londinese.
Seguii le istruzioni della donna della reception e, proprio come lei mi aveva preannunciato, trovai una gran folla di persone. Ce n’erano così tante che non sapevo neanche dove finisse la fila. Indossavano tutte degli abiti di buona manifattura.
Un gruppo di ragazze mi lanciò uno sguardo e le sentii ridacchiare.
Ho qualcosa in faccia?
Alzai lo sguardo e notai che non avevano smesso di fissarmi, né cercavano di nasconderlo.
Soltanto perché erano più attraenti di me e avevano dei vestiti migliori non significava che potevano trattarmi in quella maniera.
Mi feci strada nella folla e cercai un posto a sedere.
In fondo alla stanza c’era una sedia che aspettava soltanto me. Prima che potessi raggiungerla, però, un uomo prese il mio posto. Mi rivolse uno sguardo e si strinse nelle spalle, quindi io gli lanciai un’occhiataccia.
Mi voltai per tornare al mio posto ma, prima di riuscirci, venni pressata da una moltitudine di persone in plurime direzioni.
Venni spinta oltre una porta argentata alla fine della stanza.
Le ante si chiusero da sole. Nel panico, mi resi conto che non si aprivano. Ci riprovai, con scarsi risultati. Non riuscivo ad aprire la porta.
Maledizione!
Mi voltai per controllare dove fossi e mi ritrovai in un lungo corridoio dalla luce fioca che portava a un ascensore.
Feci un profondo sospiro di sollievo. Una via di fuga. Le porte si spalancarono appena premetti il pulsante e io corsi dentro.
Cercai il pulsante del ventesimo piano, ma l’unico che vidi aveva impresso il simbolo della Campbell.
La mia espressione si oscurò.
Decisi che era meglio provarci piuttosto che rimanere bloccata lì senza via d’uscita, così premetti il pulsante.
Per qualche ragione, il mio cuore batteva all’impazzata e avevo le mani che tremavano appena. Mi sentivo in trappola lì e percepivo la presenza di qualcosa di terrificante.
Che diavolo mi prende?
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono. Corsi fuori più velocemente possibile. Forse lì sarei riuscita a respirare.
Che posto è questo?
Mi guardai intorno e sentii la mandibola calare.
Per davvero.
Era un ufficio gigantesco e mozzafiato. C’era ricchezza da tutte le parti.
Poltrone di pelle bianca che brillavano. Non volevo neanche sfiorarle per paura di rovinarle.
E la vista… semplicemente fantastica.
Trasalii quando i miei occhi si posarono su di un dipinto appeso al muro. Mi resi conto che era un quadro diventato famoso in tutto il Paese perché era stato venduto a un compratore anonimo per un miliardo di sterline.
Un miliardo di sterline.
Porca puttana.
Su di una parete c’erano un caminetto e una grossa TV a schermo piatto. L’ufficio era del tutto bianco. Anche le penne erano bianche.
Udii la porta spalancarsi e diversi passi approcciarsi a me. Prima ancora di rendermene conto, sentii una mano afferrarmi una spalla e spingermi con forza contro il pavimento.
Poi, la sensazione di qualcosa di freddo e duro contro la fronte. Era la bocca di una pistola.
Oh, merda!
Era una cosa che avevo visto soltanto nei film. Non c’era nulla di reale in quella situazione. Non era possibile che fossi a terra, con una pistola puntata alla tempia come una diamine di criminale.
Cercai di alzare il capo per vedere chi mi stesse puntando la pistola contro, ma venni spinta di nuovo a terra. Gemetti e strinsi i denti.
“Dimmi la ragione per cui ti trovi in un ufficio privato, prima che ti faccia saltare il cervello”, abbaiò una voce profonda.
Un ufficio privato?
Come diavolo potevo saperlo, io, che mi trovavo in un’area proibita?
“Parla! Ora!”
Tremai di paura.
“Mi… mi sono persa. Non sapevo che fosse privato.
“Mi dispiace. La prego, non spari”, supplicai, chiudendo gli occhi e pregando Dio di non farmi finire all’altro mondo dopo aver macchiato con il mio sangue il pavimento di quell’ufficio immacolato.
“Lasciala andare, Gideon”, esclamò un’altra voce, facendomi sospirare di sollievo.
Sentii l’uomo allontanare la pistola che teneva premuta contro la mia testa.
Il mio sollievo, però, fu breve.
Non sapendo se avessi il permesso di alzarmi, rimasi a terra.
“Alzati”, comandò una nuova voce.
Non dovette neanche ripeterlo.
Quando mi levai, l’aria nell’ufficio cambiò.
Sentii un brivido lungo il corpo, il mio cuore battere sempre più forte nel petto. Una caterva di emozioni mi pervasero, una forza potente che bramava di mostrare la propria furia.
I suoi passi rabbiosi mi vennero incontro prima ancora che trovassi il coraggio di guardare il suo volto.
Giuro…
Smisi.
Di.
Respirare.
La sua postura imponente era sufficiente perché quasi crollassi di nuovo a terra.
Il suo respiro era pesante, un petto ampio e muscoloso che si alzava e abbassava come se avesse appena corso un’intera maratona. Era vestito di nero, dalla testa ai piedi, con un completo che tratteneva appena i muscoli delle sue possenti braccia.
Aveva un viso che sembrava essere stato scolpito dagli dèi, zigomi che avrebbero reso qualunque uomo o donna invidioso, un naso dritto e labbra carnose e rosse.
E i suoi occhi.
Oh, Dio, i suoi occhi erano argento puro.
Erano gli occhi più intensi e, al contempo stesso, più freddi che io avessi mai visto.
Si passò le dita tra i capelli neri, il suo sguardo argenteo sembrava pronto a divorare qualsiasi povera, stolta anima che si fosse ritrovato davanti.
Occhi così feroci che avrebbero potuto spazzare via l’intera umanità.
Era lui. Mason Campbell. L’uomo più malvagio e sexy al mondo.
E si stava dirigendo verso di me.