Renee Rose
Ravil
Lucy non si svegliò quando venne consegnato lo spuntino, quindi mandai Pavel a sistemarlo nel frigorifero della cucina, rimasi in mutande e mi infilai sotto alle lenzuola con lei.
E poi restai sveglio, le mani dietro la testa. Pensieroso.
Non ero arrivato ai vertici della bratva cambiando idea una volta presa una decisione. Ma ciò non significava che non potessi modificare un piano in atto. Solo che quando mettevo gli occhi su qualcosa, non mi fermavo finché non ottenevo quello che cercavo.
In quel caso, forse non ero stato chiarissimo su ciò che cercavo.
Lucy? O solo il bambino? O volevo soprattutto punire Lucy per l'offesa che mi aveva arrecato? Un buon pachan era in grado di vedere la propria debolezza. Di conoscere le proprie motivazioni.
Bljad’. Volevo punirla.
Qualche frammento del ragazzo affamato di Leningrado esisteva ancora in me, e credeva che persone come Lucy Lawrence fossero migliori di me. Che quando decidevano che non ero degno di rispetto e decenza, dovevano avere ragione.
E poi il me più grande, quello che aveva dato prova di sé con nocche e coltelli, doveva mettere quelle persone k.o. per dimostrare che non era vero.
E Lucy mi aveva mancato di rispetto.
Passò un'ora. Poi un’altra. Esaminai ogni angolo di ogni possibilità ancora e ancora solo per conoscere le mie opzioni. Le decisioni continuavano a non arrivare.
Lucy si mosse, poi si mise a sedere.
«Fame, gattina?»
Andò in bagno con una mano sulla pancia. «Ehm, sì.»
«Vuoi le ali calde adesso?»
«No» gemette. Chiuse la porta e la sentii fare pipì dall'altra parte.
Mi alzai dal letto. «Di cosa hai fame?»
«Non lo so. Cibo.»
«Molto utile, avvocato. Vieni. Ti accompagno in cucina.»
«Ah, la mia scorta personale. Immagino di doverti ringraziare per avermi fatto uscire dalla cella.»
«Dopo l'incidente del lancio d'acqua? Sì» dissi, anche se non era vero. Non portavo rancore per quello. L'avevo minacciata. Si era vendicata, nel suo piccolo. Mi piaceva la sua grinta. Ora potevamo andare avanti.
Se solo fossi stato sicuro del futuro…
La presi per il gomito e la condussi nell’enorme cucina, pregando che nessuno dei ragazzi fosse in piedi perché non volevo che la vedessero con addosso un pigiamino minuscolo.
«Ti prego, dimmi che non hai solo roba russa» sussurrò mentre accendevo la luce bassa sopra la stufa. Era una cucina da sogno, o almeno così mi era stato detto.
Io non cucinavo. La stanza era attigua al soggiorno, aperta da un lato, con bancone all'americana e isola centrale, tutto in granito rosa e nero. Gli elettrodomestici erano in acciaio inossidabile. Gli armadi erano in acero massiccio con la funzione soft-close e illuminazione integrata nella parte inferiore. Premetti l'interruttore per accendere anche quello. Se avessi acceso la plafoniera, ci saremmo accecati.
La luce soffusa illuminava il pallore della pelle e dei capelli di Lucy. Meravigliosamente strapazzata. Avrei voluto accarezzare a sangue quel suo ventre gonfio, ma al momento l’atmosfera non era di certo quella.
Aprii il frigorifero e sbirciai dentro. «Hai qualcosa contro il cibo russo?»
«Beh, la tua cultura non è esattamente conosciuta per la sua finezza culinaria.»
«Fai attenzione o non otterrai altro che boršč e pierogi per il resto della settimana.»
Sbatté le palpebre e mi aspettai un altro insulto, ma invece disse: «Hai pierogi?»
Sorrisi, indulgente. «Ti suona bene, gattina?»
«Forse.»
Tirai fuori un contenitore. «Devi almeno provare questi. Sono i migliori che abbia mai assaggiato. Realizzati dalla signora Kuznecov del quarto piano.» Aprii il coperchio e li misi sulla teglia per il tostapane. Avevo imparato che la pasta esterna diventava molliccia, al microonde. «Solo pochi minuti.» Rivolsi la mia attenzione al frigorifero. «Cos'altro suona bene? Bacche?» Tirai fuori un contenitore di mirtilli biologici.
«Mmm. Sì.» Li prese e li portò al lavandino per sciacquarli sotto un getto d'acqua. Le guardai il culo. Dal retro, non era evidente che fosse incinta. Era tutto concentrato davanti, quindi sembrava che avesse ancora una vita. Il suo culo era più pieno di quanto non fosse il giorno di San Valentino, rotondo e scopabile. Molto bollente.
Erano passate un paio d'ore ed ero pronto a toccarlo di nuovo.
Tutta la notte.
Peccato che avesse bisogno di riposo.
Certo, un orgasmo avrebbe potuto aiutarla a dormire.
Il tostapane suonò e io controllai i pierogi, assicurandomi che si fossero scaldati fino in fondo.
Lucy si mise in bocca alcuni mirtilli. «Qual è il tuo piatto preferito?»
«Russo?»
Annuì, masticando una grossa bacca.
Scossi la testa. «Non mi piace la cucina russa.»
«Vedi?» disse, poi si portò una mano sulla bocca perché l’aveva detto troppo forte.
Sorrisi, perché mi piaceva vederla più rilassata. Ne volevo ancora.
Mi guardò; i suoi occhi si tuffarono dal mio viso al mio petto nudo, sui miei tatuaggi. Il suo sguardo continuò lungo gli addominali fino ai boxer, dove il mio uccello salutò manifestando il proprio interesse.
La sua espressione era difficile da interpretare, ma dai capezzoli improvvisamente tesi sulla canotta sottile, capii che quello che vedeva le piaceva.
«Ancora?» chiesi, dando al cazzo una stretta violenta.
Deglutì, alzando di nuovo lo sguardo sul mio viso. Vidi indecisione. Il suo corpo lo voleva. La mente si ribellava. Aveva patito lo stesso dilemma al Black Light, anche se ora pensavo che si trattasse più della decisione di non volermi concedere nulla che di arrendersi ai desideri.
Le facilitai le cose entrando nel suo spazio e appoggiando leggermente le mani sulla sua vita. La girai per spostarla di fronte al bancone. «Stavolta non ti sculaccerò nemmeno» mormorai.
Non si mosse. Ma non mi rifiutò nemmeno. E dato che di lei si trattava, lo presi come un sì. Non me lo avrebbe chiesto nemmeno sapendo di volerlo.
Le feci scivolare la mano tra le gambe. «Ti propongo una scommessa.» Le sfiorai il collo con le labbra; le ciocche setose dei suoi capelli biondi mi scivolarono sul viso ispido. «Scommetto che riesco a farti venire prima che il tostapane suoni.»
Diede un'occhiata al tostapane. Mancavano due minuti.
«Pensavo che gli uomini fossero orgogliosi di impiegare molto tempo... non poco.» Aveva la voce densa.
Infilai le dita sotto ai pantaloncini del pigiama e le sfiorai le pieghe. Era già bagnata.
Fradicia.
«A lungo dovrei durare io. Stiamo parlando di te e del tuo orgasmo.» Le affondai un dito dentro. «Non userò nemmeno il cazzo. Ci stai?»
Appoggiò le mani sul piano di lavoro lucido. «In realtà» mi guardò da sopra la spalla con espressione imperiosa. «Voglio il cazzo.»
Sorrisi. «Ah sì?» Macinai l’erezione contro al suo morbido didietro.
«Le dita non sempre funzionano con me» confessò.
Le abbassai i pantaloncini con un movimento rapido; caddero sul pavimento della cucina. Nel secondo successivo, avevo la cappella che sfregava sul suo ingresso. «Le dita tue o mie?»
Prese fiato mentre io facevo breccia nel suo ingresso, spingendomi dolcemente dentro. «Mie» confessò.
«Ti assicuro che le mie sono più abili» mi vantai, il che poteva essere vero o meno. Ero riuscito a strapparle molti orgasmi la prima volta che eravamo stati insieme. Spinsi in avanti finché non fui completamente posizionato, poi mi allontanai lentamente, quasi del tutto. Lei tremò in risposta. «Ma stasera lascerò a te il comando.»
Pompai dentro e fuori di nuovo lentamente, poi le afferrai i fianchi per una serie di spinte brevi e poco profonde.
Il suo respiro accelerò, le dita si appiattirono sul bancone.
Avvolsi un braccio intorno alla sua vita, assicurandomi così di proteggerle la pancia, e sbattei dentro più forte e più a fondo.
Lei gemette e io le coprii la bocca con la mano; non che me ne fregasse qualcosa che i ragazzi ci sentissero, ma non si sa mai. Non l’avrei messa in imbarazzo. La cavalcai con la mano sulla bocca, poi allentai la presa e gliela feci scivolare giù per la gola, ingabbiandola appena.
«Penso però, kotënok, che tu preferisca che comandi io.»
La figa mi strinse il cazzo, anche se scosse la testa in diniego.
Feci scivolare la mano più in basso, verso il seno, dove le afferrai il capezzolo.
I suoi respiri diventarono singhiozzi. Continuai a viaggiare più in basso, sistemando il polpastrello dell’indice sulla piccola protuberanza del clitoride.
«Ti piacciono le mie dita adesso, gattina?»
«Uh.» Emise un verso bisognoso.
Diedi un'occhiata al timer del tostapane. Il tempo stava per scadere. Strofinai un po' più forte.
Lei gridò.
«Lo vuoi più forte, prekrasnaja?»
Si inarcò di più, spingendomi indietro. Lo presi come un sì.
Lasciai il clitoride e portai le dita di entrambe le mani intorno ai suoi fianchi e la scopai forte, coi lombi che schiaffeggiavano il suo culo pallido, riempiendo la cucina dei suoni del sesso.
Mi si strinsero le palle. Le cosce tremarono. Sarei potuto venire.
Il timer era quasi a zero. «Vieni per me, gattina.» Chiusi gli occhi e mi lasciai soccombere al piacere di essere dentro di lei – all’incredibilmente succoso e aderente adattamento, alla proibizione che lei mi odiasse, che fosse lì come mia prigioniera. Com'era giusto.
Persi il controllo e mi tuffai in profondità per venire. Nel momento in cui lo feci, lei ebbe spasmi intorno al cazzo: lo munse per il mio sperma, raggiungendo l'orgasmo di perfetto concerto con me, come se i nostri corpi fossero fatti l'uno per l'altra. Come se non avessimo potuto far altro che incontrarci.
«Ecco, bellezza.» Le strofinai di nuovo il clitoride, adesso lentamente.
Il timer suonò.
Le baciai il collo e mi allontanai, afferrando un paio di tovaglioli per ripulirci.
Singhiozzò, lasciandosi cadere sugli avambracci sul bancone, come se non fosse in grado di stare in piedi.
«Stordita, kotënok?» La pulii con il tovagliolo.
Fece un lungo, lento respiro. «Sto bene.»
Buttai via i tovaglioli e raccolsi da terra i pantaloncini del pigiama, accucciandomi per aiutarla a infilarseli.
Si tenne ferma con una mano sulla mia testa. Dopo che i pantaloncini furono a posto, la mordicchiai, poi piantai un bacio tra le sue gambe, alzando lo sguardo su di lei.
Lei lasciò la mia testa e fece un passo indietro. Avrebbe potuto lasciare che la soddisfacessi, ma non eravamo ancora arrivati al punto da concederci dell'intimità post-coitale.
Mi alzai e mi lavai le mani, poi tirai fuori il vassoio dal tostapane e feci scivolare i pierogi caldi su un piatto. «Se dovessi per forza scegliere il mio piatto russo preferito, sarebbe questo.» Le dissi offrendole il piatto. «Provane uno.»
Si allungò per poi fermarsi. «Con le mani o la forchetta?»
Lo presi con le dita e lo avvicinai alle sue labbra. «Che importa?» mormorai, mentre lei apriva la bocca. «Sei in una cucina buia nel cuore della notte. Non c'è niente di giusto o sbagliato, gattina.» Sapevo già che era il tipo di donna che voleva fare tutto bene. C'era troppo controllo nervoso nella sua vita. Avevo dovuto bendarla al club per convincerla a sintonizzarsi su di lei, me e il suo corpo.
Morse il pasticcio di carne e gemette. «Oh mio Dio, questo sì che è buono» disse con la bocca piena, catturando i fiocchi di pasta sulle labbra con la punta delle dita. «Che spezia è?»
«Aneto.»
«Aneto?» chiese incredula, tenendo il pasticcino all'altezza degli occhi e guardandone l’interno.
«Manzo. Patate. Formaggio. E aneto. Perfetto, no?»
Prese un altro boccone, come improvvisamente affamata. «È buonissimo» mormorò.
«Vieni qui.» La condussi per il gomito a uno sgabello dall'altra parte del bancone. «Ti è permesso sederti, quando mangi.»
«Mi è permesso? E cos'altro mi permetterai, padrone?» Le parole erano aspre, ma non c’era polemica in esse. Mi lanciò una rapida occhiata come se si fosse ricordata troppo tardi di avermi già chiamato padrone.
E che le era piaciuto.
Versai un bicchiere di latte e glielo posai davanti, poi mi appoggiai al bancone per guardarla mangiare. Si spazzolò tre pierogi e bevve il latte.
Quando alzò lo sguardo, sostenne il mio. «Mi dispiace di non aver provato a contattarti, Ravil.» Sentii la sincerità nella voce, e quasi le credetti finché non la sentii trattare. «Ma ora mi hai trovata. Non cercherò di tenerti lontano dal bambino. Lasciami andare. Elaboreremo un accordo di custodia. Cinquanta e cinquanta, se è quello che vuoi.»
Sapevo che era un'enorme concessione. Non mi voleva affatto nella vita del bambino. Ma non ci sarei cascato. Scossi la testa. «Qui non si tratta, avvocato. Hai perso l’occasione, ormai. Ora comando io, e tu sarai una brava ragazza e farai tutto ciò che ti chiedo.»
Strizzò gli occhi. «Non puoi...»
«Ah, sì che posso. E lo farò, gattina. Abituati.»
Si alzò dallo sgabello e si allontanò a grandi passi, dritta alla porta d'ingresso.
Che carina.
Posò la mano sulla maniglia.
Non ce l'avrebbe fatta. Anche se le avessi permesso di oltrepassare la soglia, c’era un uomo all'ascensore e un altro a livello della strada. Non sarebbe mai uscita dall'edificio, a meno che non glielo avessi permesso io. Tuttavia mi scappò un "Non farlo" pregno di ogni grammo di autorità che possedevo.
Si bloccò con la mano intorno alla maniglia.
«Questo è l’unico avvertimento che avrai.»
Vidi un brivido attraversarla.
Per aiutarla a salvare la faccia andai a prenderla, afferrandola per il gomito e guidandola di nuovo nella mia stanza. Non disse niente, ma sentii una tempesta in preparazione dentro di lei.
Non andava bene per il bambino.
Né per lei.
Tutta quella frustrazione non mi dispiaceva, ma non potevo stressarla. Rapire la donna incinta di mio figlio probabilmente non era stata la mia mossa più intelligente.
Chiusi dolcemente la porta dietro di noi, e lei si liberò dalla presa. «Calmati, gattina. Non è così male. Cosa ti dà tanto panico?»
Accesi una lampada per vederne il viso. Era rossa di rabbia e respirava velocemente.
«La mia vita!» Alzò le braccia in aria.
«Lavorerai da remoto.»
Scosse la testa. «I miei genitori.»
Annuii. «Andrai a trovarli la domenica.»
Rimase immobile. «Hai fatto i compiti.»
Feci spallucce. «Mi piace essere preparato. Tuo padre è socio dello studio in cui lavori. Ha avuto un ictus di recente.»
«Sì» sussurrò. «Se non vado a trovarlo sabato, mia madre saprà che qualcosa non va. Se le dico che sono a riposo a letto, verrà a casa.»
Scossi leggermente la testa. «Sei una donna molto intelligente. Sono sicuro che troverai qualcosa da dirle.»
Le labbra di Lucy si assottigliarono. «Non mi sembri pazzo, Ravil. Mi sembri un uomo molto ragionevole e perspicace. Perché stai facendo questo?»
Salii sul letto. «Sei una donna perspicace anche tu. Capiscilo.» Spensi la luce.
Rimase ferma al buio per diversi secondi, poi andò in bagno.
Guardai il soffitto, o nel punto in cui avrei visto il soffitto se non fosse stato buio.
Buffo. Volevo che capisse quando non capivo nemmeno io.