Alfa ribelli - Copertina

Alfa ribelli

Renee Rose

Capitolo cinque

Kylie

Scusami, Jackson.

La mia decisione idiota – indotta dalla cotta che ho per lui – di andare dritta da Jackson invece di squagliarmela ieri sera insieme a Memé, ha avuto un risultato terrificante.

Ho messo in una posizione di estremo pericolo l’unica persona a cui voglio bene, l’unico membro della famiglia che mi rimane. Se le succede qualcosa, non mi perdonerò mai. Quindi, nonostante i momenti coinvolgenti che ho vissuto con Jackson King, nonostante il mio desiderio di trovare una sincera connessione con lui, fidandomi che sia la persona giusta per colmare quel baratro che ho scavato tra me e il resto del mondo, sarò io stessa a mettere fine a questo legame. Memé è più importante.

Devo riavere la chiavetta che gli ho dato senza destare sospetti. Decido per la via più diretta.

È decisamente il giorno della sfida finale: un giorno da scarpe da ginnastica. Con indosso una minigonna in jeans, la maglietta di un cartone animato giapponese e le mie Converse nere con i brillantini, entro di gran marcia alla SeCure alle 6:45 di mattina. Immagino sia aperto e confido che Jackson arrivi presto per essere in anticipo rispetto alla minaccia. Salgo le scale fino all’ottavo piano.

Le luci sono spente, la porta chiusa a chiave. Mi lascio cadere seduta sul pavimento davanti all’ufficio di Jackson, la schiena appoggiata alla sua porta, e tiro fuori il mio portatile. Ho esaurito le cose da cercare: sono stata sveglia tutta la notte a tentare di rintracciare il numero telefonico privato da cui mi hanno minacciata. Sono risalita a un indirizzo IP, ma non l’ho ancora individuato.

Come hanno fatto a trovarmi? Sono stata così attenta per tutti questi anni.

L’ascensore suona. Sollevo lo sguardo dallo schermo, le dita che ancora volano sulla tastiera, alla ricerca delle stringhe di dati.

Jackson si ferma quando mi vede. “Difficoltà a dormire?”

Mi alzo in piedi. “No. Tu?”

“Per niente.”

“Cos’hai trovato?” Vado con la tattica facciamo finta che siamo alleati in questa cosa. Lui inarca un sopracciglio per farmi intendere che sono fuori pista. È lui a comandare e non siamo una squadra. “Scusa. Forse dovrei baciarti il culo e chiamarti signor King, qui al lavoro?”

“Mi è piaciuto quando mi hai chiamato signore,” dice, girando la chiave nella toppa e passandomi davanti.

“Immagino,” mormoro, ricordando tutt’a un tratto il modo dominante in cui mi ha trattata ieri notte. Lo seguo e faccio come fossi a casa mia nel suo ufficio megagalattico: mi siedo comoda su una poltroncina e tiro nuovamente fuori il mio portatile. “Ho portato il mio computer personale per caricare il malware. Vorrei avere una possibilità di studiarlo, se sei pronto a concedermi un’occhiata.” Paura e necessità hanno riportato indietro la vecchia Kylie, quella capace di mentire a chiunque, anche a Jackson King, la mia criptonite personale.

Lui mi ignora, il volto indecifrabile mentre tira fuori il suo portatile e lo sistema sulla docking station.

Troppo nervosa per starmene lì seduta ad aspettare che mi reputi degna di una risposta, chiedo: “Devo fare un caffè?” Credo abbia la sua cucinetta personale a questo piano.

Lui smette di muoversi, gli occhi più chiari alla luce del sole che filtra attraverso le alte vetrate a parete. C’è qualcosa di predatorio nel modo in cui mi guarda. Come se la mia offerta di preparare il caffè l’avesse eccitato. Va bene, magari è un feticista dei rapporti schiava-padrone.

Si eccita a farsi servire. Si comportava in modo decisamente autoritario con Sam, il suo coinquilino.

“Latte, niente zucchero.”

“Dov’è?”

“Dietro l’angolo, a destra. Lo trovi.”

Buffo, perché mi sa che una parte di me ha la stessa perversione: andargli a prendere il caffè eccita pure me.

Grata per la possibilità di sfogare l’energia maniacale che mi sta dominando, scivolo fuori dal suo ufficio e preparo il caffè. Sono chicchi freschi di Peet e nel comparto sottostante del frigo c’è del vero latte col 50% di panna. Ne faccio una tazza anche per me e torno indietro proprio quando arriva la sua segretaria.

Se le occhiate potessero uccidere, sarei a terra stecchita.

“Non preoccuparti per il suo caffè,” dico con tono allegro e spensierato. “Gliel’ho già preparato.”

Mi guarda da testa a piedi e piega le labbra in una smorfia quando vede le sneakers che indosso.

Io le rivolgo il mio più brillante sorriso ed entro nell’ufficio di Jackson. “Il suo caffè, signore.” Faccio il giro della scrivania e mi porto al suo fianco, troppo vicina a lui mentre mi chino in avanti in posa da gattina sexy e gli porgo la tazza.

La segretaria sbircia dalla soglia.

“Attenta, gattina, o ti punisco anche qui,” ringhia lui sottovoce.

“Cosa?” chiedo con innocenza.

“Cancella tutti i miei appuntamenti e chiudi la porta, Vanessa. Abbiamo una questione da gestire qui,” dice alla sua segretaria, aprendo il cassetto della scrivania e tirando fuori un righello di legno. Lo appoggia in mezzo a noi, lanciandomi un’occhiata eloquente.

Nonostante tutto, nonostante la mancanza di sonno e la nauseante preoccupazione per Memé, nonostante il mio spaventoso compito di ottenere la chiavetta e hackerare il sistema della SeCure entro le prossime dodici ore, mi sento attraversare da una scarica di desiderio sessuale.

Oh cavolo, sì, mi può sculacciare ancora.

Vorrà fare molto di peggio quando si renderà conto di quali siano le mie reali intenzioni. E quel pensiero basta ad affievolire la mia fremente lussuria.

Gli tendo la mano. “Chiavetta?”

Non sono realmente certa che me la darà, ma dopo un momento lui la tira fuori dalla tasca e la lancia in aria.

La afferro al volo e lui sorride notando i miei riflessi rapidi.

“Resterai nel mio ufficio mentre ci lavori.” Solleva il mento e indica la sedia di fronte a lui.

Merda. Come cazzo faccio ad hackerare la SeCure e caricare quel dannato malware se me ne sto seduta a lavorare a un computer che non è collegato al sistema?

Mi siedo e inserisco la chiavetta. È un programma sofisticato e non sono del tutto sicura di come funzioni, ma non riesco a concentrarmi per capirlo. Mi metto invece a ripassare tutto ciò che ho appreso quando sono entrata nel sistema della SeCure otto anni fa. Ovviamente so che niente sarà lo stesso questa volta.

Cazzo, lavoro qui solo da qualche giorno. Come possono aspettarsi che installi questa cosa? Non mi hanno ancora dato accesso di sicurezza a nulla. A meno che…

Quali probabilità ho di entrare nel computer del capo? Sono qui, seduta nel suo ufficio. Se lui è collegato al sistema, posso prendergli la password, o magari addirittura caricare il codice dal suo computer. Dovrà pure andare in bagno a qualche punto, giusto? O uscire per pranzo?

Il mio cuore batte forte mentre cerco di escogitare l’inganno, e Jackson solleva lo sguardo come se sentisse le pulsazioni selvagge nel mio petto.

Io tengo la testa bassa, come se fossi molto concentrata a studiare il tutto.

Nel momento in cui finirò, dovrò scappare di brutto, altrimenti uscirò di qui in manette. Considero le uscite. La rampa di scale porta al retro dell’edificio. Potrei riuscire ad arrivare alla mia auto.

E dopo dove vado? Quei ricattatori di merda non mi hanno neanche detto come fare per contattarli. Come faccio a riavere indietro Memé?

Una paura orribile e tremenda mi colpisce come una scarica elettrica. E se non intendessero ridarmela indietro? E se fosse già morta, il suo corpo gettato da qualche parte nel deserto? Avrei dovuto chiedere di sentire la sua voce. Ma che cazzo di problemi ho?

Quando avrò caricato il malware, non avrò più niente per fare leva. Io e Memé saremo entrambe alla deriva. Mi accolleranno la colpa per l’attacco informatico e Memé morirà.

“Cosa c’è?” La voce di Jackson riecheggia nell’ufficio.

Sollevo la testa di scatto e lo trovo a fissarmi intensamente. Ha le narici dilatate come se avesse sentito un odore sgradevole.

Il cuore mi batte più forte. Ho detto qualcosa a voce alta?

“Sento la tua agitazione. Cos’hai trovato nel codice? Sai chi è stato a farlo?”

Cristo, sente la mia agitazione? Non c’è da stupirsi che quest’uomo abbia costruito un’azienda da miliardi di dollari usando nient’altro che un computer portatile. E io che ho sempre pensato che fosse socialmente impacciato. Forse sta alla larga dalla gente perché legge tutti fin troppo bene, quindi ne è annoiato.

La mia mente galoppa alla ricerca di una risposta da dargli. “I-io penso di essere stata incastrata.”

Solleva il labbro in chiara dimostrazione di disappunto. “Mi pareva che quella parte già la sapessimo.”

“Intendo dire da dentro. Come ho fatto a ottenere questo lavoro? Una cacciatrice di teste mi ha chiamata dal nulla. Non ho mai visto da nessuna parte l’offerta di lavoro per questa posizione. Non ho mai fatto domanda di assunzione alla SeCure.”

Jackson impallidisce e giuro che i suoi occhi sono ridiventati azzurri. Si alza con espressione cupa. “Torno subito.” Esce dalla porta e se la chiude alle spalle.

Conto fino a cinque, regolarizzando il respiro. Poi vado rigidamente alla scrivania di Jackson e mi siedo al suo posto.

Nei miei giorni da ladra ho imparato a scollegare la paura quando sto eseguendo un lavoro. Il tempo era sempre un fatto essenziale, e se si perdeva la testa, il lavoro era bell’è finito. Ho imparato a tuffarmi in un buco nero di concentrazione. Mi concentro esclusivamente sul compito che ho sotto mano. Ecco lo spazio mentale che trovo adesso. La mia vista si fissa entro i contorni dello schermo mentre passo al setaccio le schermate di accesso per tirare fuori la password di Jackson. Ne trovo venti, senza nessuno schema distinguibile. Deve averne una diversa per ogni login. Furbo.

Lavoro per passare oltre il firewall ed accedere al codice infosec. Non permetto a me stessa di pensare a cosa succederebbe se Jackson tornasse prima che ci riesca. O se non ci riuscissi per niente. O se non lasciassero andare Memé.

Vedo solo i caratteri sullo schermo. Un enigma da risolvere.

Sedici minuti dopo, sono dentro.

Non c’è tempo per festeggiare. Prendo la chiavetta e la inserisco nella sua porta USB.

Scusa Jackson. Mi spiace un sacco, cazzo.

Il programma si avvia automaticamente, il codice si dispiega davanti ai miei occhi a velocità supersonica.

Mi alzo dalla mia sedia, prendo le mie cose ed esco rapidamente. Non guardo neanche la sua segretaria. Percorro il corridoio, come se stessi andando al bagno, e infilo le scale.

Otto piani. Poi un parcheggio e sarò nella mia automobile.

Solo che già so che mi hanno in pugno. Non lasceranno andare Memé. Come potranno mettermi in galera se un’anziana signora racconta di essere stata rapita?

Quindi ho solo commesso un altro misfatto e ho distrutto l’unica azienda che abbia mai ammirato, e tutto per niente.

Peggio: ho distrutto ciò che stavo costruendo con Jackson King, qualsiasi cosa fosse. E questo… questo mi fa quasi più male del pensiero che Memé possa essere morta.

***

Jackson

Per come la vedo, questo attacco deve essere venuto da qualcuno del reparto infosec.

Purtroppo, questo limita il campo a 517 persone distribuite per tutto il mondo. Solo 137 di loro sono in questo edificio. Ma posso partire da Luis, il mio capo della sicurezza, e dalle Risorse Umane, per avere qualche risposta sull’assunzione di Kylie.

Vado dritto all’ufficio di Luis ed entro con impeto senza bussare. Lui è al telefono, probabilmente con sua moglie, perché posso sentire una voce femminile dall’altra parte della linea, che gli sta raccontando qualche lunga e interminabile storia.

Luis raddrizza la schiena e mi guarda attento, mentre tenta di interrompere il monologo della sua interlocutrice. “Scusa, tesoro. Il signor King è appena entrato nel mio ufficio.”

“Oh! Ok, chiamami dopo,” dice lei rapidamente.

“Sì.” Riaggancia e mi guarda intimidito. “Mia moglie è tutta agitata perché mandiamo il bambino a quel talent della scuola.”

Devo dare credito a Luis. Dopo tutti questi anni che vieto qualsiasi forma di conversazione personale sul lavoro, lui ancora ci prova. È come se volesse ricordarmi che ha una famiglia ed è umano, quindi non dovrei chiedergli troppo.

Non che questo mi trattenga dal farlo.

“Cos’hai scoperto del nuovo acquisto in infosec?” gli chiedo.

La fronte di Luis si aggrotta. “Kylie McDaniel? Cosa intende dire?”

“Ti avevo chiesto di indagare su dove l’avevamo trovata. Chi l’ha mandata al vaglio? Da quanto tempo era aperta questa posizione?”

“Abbiamo sempre posizioni aperte. Lei mi ha chiesto di raddoppiare il team della sicurezza tre anni fa, e ci sto lavorando da allora. È difficile trovare nuova gente valida da assumere. Ci si mette in media tre mesi per ricoprire una posizione.”

“E questa posizione è stata pubblicizzata?”

“Non pubblicizzata, no. Usiamo una reclutatrice. Ci risparmia il tempo a scartabellare candidati non qualificati. È un anno intero che cerca attivamente i candidati giusti.”

“E come ha fatto a trovare Kylie?”

Luis scrolla le spalle. “Mi spiace, non ho indagato. È ben risaputo che gli hacker tengono sempre gli occhi aperti per lavori come questo. Ha senso andare a pescare dal bacino di coloro che capiscono seriamente ciò con cui abbiamo a che fare. Facciamo delle eccezioni speciali per candidati come Kylie. Per esempio, i requisiti ufficiali di questa posizione prevedono un’esperienza di venti o venticinque anni sul campo. Ma le abilità che ha dimostrato lei, sulla base del test somministrato da Stu, vanno a rimpiazzare gli anni di esperienza.”

Tutto questo ha senso ed è addirittura plausibile. Ma Kylie aveva ragione. È stata troppo una coincidenza che qualcuno l’abbia ricattata subito dopo l’inizio del suo lavoro alla SeCure. Se gli hacker stavano cercando un accesso, gli ci sarebbero voluti più di un paio di giorni per identificare il dipendente giusto.

A me sembra un trabocchetto di prima classe.

“Vorrei nome e numero della cacciatrice di teste.”

“C’è qualcosa che non va, signore? Pensavo che la ragazza le piacesse, nonostante la sua impertinenza.”

“Non importa che mi piaccia o no. Voglio sapere di più delle pratiche di reclutamento usate per ricoprire le posizioni più sensibili nella mia azienda,” dico con tono secco, usando la mia voce più autoritaria.

Luis mostra subito la sua faccia calma e tranquillizzante. “Certo signore. Capisco. Chiamo subito le Risorse Umane e le faccio avere le informazioni.” Prende il telefono.

“Lascia perdere,” dico. “Ci vado di persona.” Devo guardare la gente negli occhi, essere tanto vicino da sentire l’odore della loro paura quando li interrogo. Esco e vado deciso all’ascensore, quindi scendo al quarto piano per vedere la direttrice delle Risorse Umane.

Con lei non perdo tempo: mi bastano il nome e il numero della cacciatrice di teste.

Ormai il mio lupo sta graffiando per venire in superficie, per dirmi qualcosa di Kylie. Ho voglia di vederla. Ne ho quasi necessità.

Dannazione. È possibile che la vera compagna di un mutante possa essere un’umana? Perché non ci sono altre spiegazioni per il modo in cui mi sento.

A meno che non sia solo il mio istinto che mi sta avvisando di un potenziale pericolo nei miei confronti.

Con questo pensiero, faccio i gradini due alla volta e torno al mio ufficio, incapace di starmene fermo ad aspettare in ascensore. Il suo odore è dappertutto, mi riempie il naso come se fosse sulle scale con me.

Arrivo al mio ufficio e apro la porta.

Il mio computer è aperto e un programma sta scorrendo veloce sullo schermo.

Oh merda.

Mi si ferma il cuore, bloccato da qualche parte tra le clavicole e la gola. Mi sudano le mani, la vista si fissa, piena di rabbia.

Dimmi che non è quello che sembra. Dimmi che…

Cazzo!

Con un ringhio prendo il portatile e lo scaglio contro il muro, facendolo esplodere in un milione di pezzi.

“Signor King!” Vanessa entra nell’ufficio di corsa.

“Da quanto se n’è andata?” sono sorpreso dalla calma della mia voce.

“Oh! Ehm… circa dieci minuti, signore? Perché? Cos’è successo? Signore? C’è qualche problema?”

Ignoro Vanessa e le passo oltre.

La scala.

La fottuta scala. Non c’è da meravigliarsi che sentissi il suo odore. Ecco come è scappata.

***

Kylie

Arrivo alla mia auto ed esco di corsa dal parcheggio. Vado in direzione del centro, ma non ho idea di dove andare.

La polizia verrà a cercarmi a casa. È ora di tagliare la corda. L’ho fatto almeno venti volte. So come cancellare la mia esistenza e crearmene una nuova in un’altra città. Addirittura in un altro Paese. Ma che sia maledetta se lascerò Tucson senza Memé.

Quindi ho solo bisogno di un posto dove nascondermi. Dove aspettare la chiamata dei ricattatori, che temo non arriverà.

Vado alla Bank of America, dove ho una cassetta di sicurezza. Magari riesco ad entrarci prima che l’FBI lanci un allarme su qualsiasi cosa sia correlata al mio attuale codice fiscale. Entro frettolosamente in banca, tirandomi giù il bordo della maglietta, maledicendomi per non essermi messa i tacchi oggi.

Prelevo tutti i miei risparmi in contanti, do loro la mia carta d’identità e chiedo di avere la mia cassetta di sicurezza. Mi mandano ad aspettare in un ufficio. Passano tre minuti. Cinque.

Per favore, che almeno questa mi vada dritta.

Il manager sovrappeso con il taglio di capelli anni Novanta torna con la cassetta.

Grazie a Dio.

La prendo e tiro fuori tutto. Ho passaporti e carte d’identità qua dentro, insieme ad altri contanti d’emergenza. Assumo il mio migliore atteggiamento da grandi affari e resisto all’impulso di infilarmi tutto in borsa e scappare. Mantengo dei movimenti fluidi e precisi. Nessun gesto o movimento sprecato, mantenendo l’aspetto freddo, calmo e misurato necessario per evitare di destare sospetti.

“Grazie mille,” dico al manager rivolgendogli un sorriso radioso. Mentre mi dirigo verso l’uscita, quasi crollo.

Se scappo ora, sarò completamente sola. Niente Memé. Niente amici. Nessuna possibilità di mantenere lo stile di vita normale che avevo adottato.

Ma se resto, finirò in un penitenziario federale. Invece di andare all’auto, comincio a camminare. Il centro di Tucson è piccolo, ma ci sono persone dappertutto, e mi confondo con loro. Percorro Congress Street senza andare da nessuna parte in particolare. Ho solo bisogno di muovermi. Di pensare.

Il mio telefono rimane angosciosamente silenzioso. Di sicuro i ricattatori sanno ormai che il codice è stato installato.

Quindi sì, non hanno intenzione di liberare Memé.

Trovò un bar e tirò fuori il portatile per cercare ancora una volta di rintracciare la chiamata che ho ricevuto ieri sera. Il solo mettermi a fare qualcosa di familiare diminuisce il mio livello di stress. Lavoro per il resto della giornata senza fortuna. Quando le finestre si oscurano e la barista mi sta lanciando occhiatacce, capisco che non c’è speranza.

Non chiameranno.

Sono in qualche modo sorpresa che qualcuno della SeCure o dell’FBI non abbia almeno tentato di far suonare il mio telefono. Non che avrei risposto.

Esco dal bar e cammino fino alla mia auto. Non è circondata da macchine della polizia, né l’hanno sequestrata, ma in ogni caso passo oltre. Non vale la pena di rischiare. Chiamo invece un Uber e uso un conto di facciata per prendere una stanza in un hotel economico nella complanare subito fuori dalla I-10. Per la camera uso carta d’identità e carta di credito nuove.

In camera mi levo le scarpe e mi siedo sul letto con il mio unico e migliore amico, il mio portatile.

Pensa, K, pensa.

Cosa faccio adesso? Lascio la città? Prendo un aereo e lascio il Paese? Cosa posso fare per Memé?

Sono una donna sveglia, ma non mi arriva nessuna risposta. Mi stringo le ginocchia al petto e dondolo avanti e indietro.

***

Jackson

Mi stringo le tempie con una mano mentre l’altra si muove sulla tastiera. Sono le quattro di mattina.

Tutti i dipendenti dell’infosec, insieme al sottoscritto, hanno lavorato giorno e notte per isolare il fottuto malware, ma quello è andato a infiltrarsi dappertutto. Ho implementato le misure di emergenza nel trasferimento dei dati finanziari di milioni di utenti a nuovi server sicuri, ma dubito che saremo sufficientemente veloci. Probabilmente hanno già abbastanza da poter causare danni importanti. Ancora non so cosa vogliano. Sembra qualcosa di più grande che arrivare ai dati delle carte di credito. Ci sarebbero posti più facili da hackerare rispetto alla SeCure, se fosse questo il loro obiettivo.

“Di’ a tutti nel reparto che nessuno andrà a casa stanotte fino a che non avremo completato il trasferimento,” ordino bruscamente a Luis. “E se qualcuno fiata su quello che sta succedendo qui, gli faccio il culo. È chiaro?”

“Gliel’ho già detto,” dice Luis con la sua infinita pazienza. “A che punto chiameremo l’FBI?”

“Non fino a che non avremo l’intera situazione sotto controllo. Non voglio neanche che il resto del team esecutivo sappia qualcosa fino a che non avremo circoscritto il problema.”

Lui sembra dubbioso, ma annuisce. “Sì, signore.”

La mia direttiva è perfettamente logica. Ci troviamo davanti a un’emergenza di proporzioni epiche. Se ne arriva voce alla stampa, le azioni della SeCure precipiteranno e la gente andrà nel panico per paura che gli vengano rubati soldi e informazioni.

Ma ho un altro motivo per rifiutare di coinvolgere le forze dell’ordine.

Voglio gestire la cosa personalmente con Kylie McDaniel. Mi ha tradito e ho bisogno di guardarla negli occhi e capire come ho potuto fare un errore del genere. Devo assicurarmi che non succeda di nuovo.

E c’è dell’altro. Qualcosa che non voglio neanche ammettere come motivazione, anche se lo è.

Kylie non sopravvivrebbe in prigione.

È claustrofobica. Ne morirebbe.

Quindi preferisco seguire la giustizia dei lupi. Trovare Kylie e fargliela pagare nel modo tradizionale. Punizione e riscatto.

Sarà lei a sistemare questa faccenda.

Anche se dovrò tenerla prigioniera fino a che non ci riuscirà.

“Sappiamo già come hanno fatto ad entrare, signore? Sospetta della neo-assunta? Ho sentito che è scomparsa oggi.”

“Mi occuperò io della gente che sta dietro a questa cosa. Tu concentrati sul contenimento del disastro.”

“Sì, signore.”

“Tu resta qui a supervisionare. Io vado a trovare il responsabile e gliela faccio pagare.” Il predatore dentro di me ha bisogno di cacciare la sua preda. Devo trovare Kylie.

Luis deve scorgere la ferocia del mio lupo, perché impallidisce e abbassa la testa. “Sì, signore.”

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