
Il racconto di una fae Libro 1: Le ali del destino
"Hai paura del buio?"
I sogni di Ella di guadagnarsi finalmente le ali vengono distrutti quando una catastrofe si abbatte sul suo villaggio, a poche settimane dal suo rito di passaggio all’età adulta. Poi arriva la richiesta del Regno: una consorte deve essere inviata a un principe di cui nessuno osa parlare: il mezzo-vampiro avvolto in sussurri e ombre. Tutti si aspettano che qualcuna venga scelta. Nessuno si aspetta che sia Ella a farsi avanti.
Sostenuta solo dall’istinto e da un fuoco che non sa spiegarsi, si addentra in un mondo di magia oscura, segreti antichi e un principe che potrebbe essere molto più di una leggenda. Il potere le trema tra le dita, ma il prezzo per afferrarlo potrebbe essere il suo cuore. O qualcosa di peggio.
In un regno dove il destino morde forte quanto le zanne, Ella non sta lottando solo per una corona, sta lottando per diventare qualcosa di più di quanto chiunque abbia mai immaginato.
Moriella di Marshpoint
«Hai paura dell'oscurità?»
Si voltò, ma non c'era nessuno. Solo ombra, che si avvolgeva come fumo attorno alle sue caviglie, distendendosi in un nero senza fine.
Un attimo prima, volteggiava una farfalla – arancione come una fiamma – ma ora era sparita.
Il buio pulsava intorno a lei, lento e regolare, come un respiro.
«La mancanza di luce non ti intimorisce?» La voce fluttuò nell'aria, morbida come seta e abbastanza profonda da insinuarsi sotto la pelle.
Non la spaventava. La affascinava.
«No», sussurrò, anche se non era sicura di aver parlato davvero.
L'aria cambiò. Un calore le scivolò lungo la schiena. Una presenza si agitò dietro di lei, intensificandosi.
Allungò la mano all'indietro e...
«Moriella Briarsand!» Il nome squarciò le assi del pavimento, svegliando Ella di soprassalto.
Non un demone. Peggio. Sua madre.
«Perché ti sento russare invece di vederti nei campi?» la rimproverò.
«Arrivo, mamma», borbottò. Con una mano si lisciò la tunica spiegazzata che indossava dalla sera prima, trascorsa a scolarsi pinte di birra con gli amici.
Al catino, si sciacquò il viso con l'acqua fredda. Il sogno le rimase addosso ancora per un istante – un'ombra, una voce carezzevole – poi svanì, come sempre accadeva.
Le sue trecce ramate erano disfatte, ma non le importava. Non era perfetta ed elegante, ma era sempre se stessa... e tanto le bastava.
Scese le scale due gradini alla volta. «Buongiorno, buongiorno, vado subito!»
La cucina era inondata di luce. I raggi del sole si riflettevano sulle file di barattoli di spezie ed erbe, etichettati con cura sugli scaffali di quercia.
Sua madre, Samera, era ai fornelli, intenta a tagliare una pagnotta ancora calda. Le piume delle sue ali bronzee si agitavano dietro di lei, segno inequivocabile che era irritata.
«Mangia almeno qualcosa, prima che siano le erbacce a divorarti», la ammonì. «Sei diventata pelle e ossa, in questi ultimi due anni».
Ella non poteva darle torto. La sua rapida crescita l'aveva lasciata alta e magra... una pianta di fagioli ambulante, ma non per questo meno goffa.
«Un po' di strutto, per favore?» chiese.
Samera sospirò e prese la latta. «Sì, sì, ma fai in fretta. Tuo padre sta per suonare la campana».
Ella fece una smorfia. La campana significava che serviva aiuto nei campi, e se non si fosse sbrigata, sarebbero arrivati prima i figli dei vicini.
E allora non solo suo padre avrebbe dovuto pagarli, ma avrebbero passato tutto il tempo a tormentarla perché non era forte come loro.
Non era colpa sua, le ricordava spesso suo padre. Non era colpa di nessuno.
Era cresciuta in campagna dall'età di quattro anni, piccole mani che imparavano il ritmo della terra e del suolo.
Quando i suoi genitori avevano deciso di avere un altro figlio, non potevano prevedere ciò che quella nascita avrebbe portato con sé.
Suo fratello, Puckaelow – anche se tutti lo chiamavano Puck – era stato estratto dal ventre materno con un taglio chirurgico. Era venuto al mondo con ali sottili e iridescenti, che battevano prima ancora che riuscisse a piangere. Ali che non sarebbero dovute spuntare fino al suo ventesimo anno.
I suoi primi passi non avevano mai toccato terra. Invece, fluttuava nell'aria, un bambino sorridente che aveva sbattuto contro il soffitto prima di imparare a gattonare.
Ma a tre anni, le piume avevano cominciato a cadere, staccandosi a ciuffi. Nessuno ne conosceva la ragione. Si sapeva solo che provava un dolore terribile.
Le ali furono recise dalla sua schiena. Subito dopo, le sue gambe avevano smesso di funzionare.
La famiglia era precipitata nella disperazione, ed Ella era rimasta l'unica figlia in grado di occuparsi delle faccende pesanti.
Puck, da parte sua, gestiva i registri contabili, dava da mangiare alle galline e aiutava la madre a preparare i pasti.
Ella non lo aveva mai deriso per la sua condizione. Nemmeno una volta. Temeva che, quando le fossero spuntate le ali al compimento dei vent'anni, anche quelle sarebbero cadute e morte.
Gli abitanti del piccolo villaggio – ovviamente tutti a conoscenza della storia della loro famiglia – si dividevano in due gruppi.
C'erano quelli che la trattavano con rispetto e compassione, orgogliosi che avesse assunto il ruolo di primogenita senza lamentarsi. Dicevano che le sue ali, quando fossero arrivate, sarebbero state forti. Proprio come lei.
E poi c'erano gli altri. Quelli che sussurravano di una maledizione nella linea di sangue dei Briarsand, impazienti di vedere le sue orribili ali, se mai le avesse avute.
Ella stava alla larga da quella gente.
Un profumo caldo e saporito si diffuse nell'aria, riportandola al presente.
Sua madre le porse una fetta spessa di pane, generosamente spalmata di strutto. Ella si sporse per abbracciarla, facendo fremere di gioia le ali di Samera.
Con il pane stretto tra i denti, spalancò la porta. Puck era già fuori sulla sua sedia di legno, con le ruote fissate ai lati.
La siccità aveva ridotto i campi a una distesa arida, permettendogli di spostarsi senza troppa fatica su quel terreno indurito. Teneva una ciotola in grembo mentre lanciava il mangime alle galline.
Puck era vissuto più a lungo di tutte le previsioni dei guaritori. Dopo la rimozione delle ali, gli avevano dato un mese. Poi un anno. Poi tre, al massimo.
Ora, a quattordici anni, conservava ancora il suo senso dell'umorismo, nonostante il dolore che lo accompagnava. «Bello vederti finalmente unirti a noi, Ellie!» esclamò. «Era la tua ombra, quella che ho visto strisciare alle tre di notte?»
«Una moneta per il mio silenzio?» contrattò lui.
«Te ne do due se tieni la bocca chiusa per il resto della settimana», ribatté Ella. Quel giorno era il compleanno del suo migliore amico e, se tutto fosse andato come previsto con l'arrivo delle ali, i festeggiamenti sarebbero durati tutta la notte.
«Affare fatto», concluse Puck. «E di' a papà che ho quasi finito con le galline».
Ella annuì e si avviò verso i campi, dall'altra parte del fienile.
Contro ogni previsione, il raccolto di selming di suo padre – una verdura rara che fungeva da fertilizzante naturale – stava prosperando. Era l'unica cosa che garantiva il cibo sulla loro tavola.
Lo trovò chino sulle file di selming, la mano guantata stretta attorno a una vanga, i denti serrati per lo sforzo mentre strappava dal terreno una massa verde aggrovigliata.
Le erbacce, se così si potevano chiamare, non erano semplici infestanti. I loro viticci strisciavano e scattavano, contraendosi con una tensione simile a quella muscolare.
Minuscole fauci, affilate come spine, mordicchiavano ferocemente i suoi guanti.
«Puck ha finito con le galline», annunciò Ella come saluto.
«Se non ti conoscessi bene, direi che la mia compagnia non è più di tuo gradimento», replicò suo padre, gettando l'erbaccia in un secchio con una precisione da esperto.
Si levò i capelli dagli occhi, ciocche bronzo-grigie che catturavano la luce del mattino.
«Mi scuso per il ritardo», rispose lei. «Sai che adoro la tua compagnia, papà».
«E non preferiresti lavorare con quei tre ragazzi nel campo laggiù?»
«Piuttosto farei il bagno con i maiali».
Lui rise, un suono pieno d'affetto, mentre lei gli si accovacciava accanto. Con un grugnito, affondò la vanga nel terreno.
Un'erbaccia si contorse per schivare il colpo. La lama la sfiorò appena, e la liana scattò verso il suo polso, sfiorandole la pelle con le punte spinose.
«Oh, piccola bastarda». La tirò dalla radice e la scaraventò nel secchio.
«Moriella Briarsand». La seconda volta che il suo nome completo veniva usato quella mattina. «Prego che chiunque ti sposerà apprezzi la tua lingua tagliente».
«Mamma avrebbe dovuto iniziare le lezioni di buone maniere quando ero ancora nel grembo», ribatté lei. «Pensavo comunque ti piacesse che dicessi sempre ciò che penso».
«Ammiro la tua forza e il tuo calore», rispose Erannon. «È la tua arguzia affilata che ti metterà nei guai».
Ella scrollò le spalle. Con Puck incapace di occuparsi della maggior parte delle faccende, ci si aspettava che chiunque l'avesse sposata avrebbe preso in carico le terre dei Briarsand e le avrebbe gestite insieme a lei.
Ovviamente, Ella non aveva la minima intenzione di sposarsi.
Gli unici uomini che le stessero davvero a cuore erano suo padre, suo fratello e il suo migliore amico, Sylvan Waylocks. Non abbastanza da volerlo come marito, ma abbastanza da tollerare la sua amicizia.
«Tua cugina Rosalia tornerà presto», continuò suo padre. «Dobbiamo lavorare sodo oggi. Domani la giornata sarà ridotta».
Rosalia, a soli ventiquattro anni – un'età sorprendentemente giovane per un console – aveva assunto il compito di guidare il loro villaggio. Era partita per una missione commerciale a Evercross, un lungo volo verso la città vicina.
Aveva scambiato i loro preziosi selming e avrebbe dovuto consegnare allo zio la sua parte durante un incontro ufficiale.
«Dovremo finire prima anche oggi», gli ricordò Ella. «Sylvan è nato alle cinque e dodici minuti».
Per dimostrargli che si stava impegnando, afferrò quattro erbacce contemporaneamente. Protestarono con stridii sommessi, agitando furiosamente le foglie spinose nel tentativo di liberarsi.
Ella rise trionfante mentre le lasciava cadere nel secchio. «Ecco fatto. Questo varrà pure qualcosa, no?»
«Ti sei guadagnata dieci minuti», ammise Erannon. «Ma sei comunque arrivata con quaranta minuti di ritardo».
Lei sorrise, chinandosi sul viticcio successivo e lasciando che il ritmo del campo si stabilisse: vanga, strappa, getta, chiacchiera.
Le erbacce sibilavano e si contorcevano, ma quel giorno non avevano scampo contro i Briarsand.
Alle tre del pomeriggio, i selming erano rigogliosi, i maiali erano stati nutriti e i pomodori maturi raccolti.
Ella lanciò un'occhiata a suo padre, sperando nel permesso di andare a sistemarsi prima della cerimonia. Ma l'attenzione di Erannon era rivolta al cielo. Due fae stavano scendendo verso di loro.
Ella ne riconobbe subito uno: suo cugino Soric. L'altro era Thistias, un assistente della console e messaggero ufficiale del villaggio.
Con la coda dell'occhio, vide Puck spingere la sua sedia attraverso i campi, ansioso di sentire qualunque notizia stesse per arrivare.
«Buona giornata», li salutò Erannon. «A cosa dobbiamo la vostra visita?»
«Mia sorella...» cominciò Soric, ma Thistias agitò le ali bruscamente, zittendolo.
«Lady Rosalia, console di Marshpoint», annunciò Thistias, con una solennità decisamente eccessiva per il loro piccolo villaggio, «si è ammalata durante il viaggio di ritorno. Siamo stati costretti a scendere a terra su una strada impervia. La nausea peggiora ogni volta che proviamo a trasportarla. Stiamo convocando tutti i guaritori per curarla immediatamente, e ogni soldato disponibile per restare di guardia in caso di...»
La sua voce vacillò. Il solo nome incuteva paura a molti.
«In caso di vampiri», concluse Erannon. «Il sole è ancora alto, non c'è motivo di allarmarsi. Prego, troverete mia moglie in casa, si prenderà cura di mia nipote. Voglio dire, Lady Rosalia».
«E soldati?» insistette Thistias.
Puck arrivò in quel momento, le mani arrossate per lo sforzo di girare le ruote della sedia.
Erannon sospirò. «Non ce ne sono qui. Devo occuparmi di mio figlio. Sono l'unico che può sollevarlo senza fargli male. Ed Ella non è una guerriera, né ha ancora vent'anni».
Lei diede un calcio a un sassolino, abbassando lo sguardo.
«Sono sicuro che sia formidabile in altri modi», commentò Soric, mentre Thistias stava già volando verso la casa principale. «Vi ringraziamo».
Ella prese mentalmente nota di aggiungere Soric alla breve lista degli uomini che riusciva a tollerare.
«Pensi che Rosalia starà bene?» domandò Puck.
«Ne sono convinto», rispose il padre. «Abbiamo una mezza dozzina di guaritori nel villaggio, è in buone mani. Mi chiedo solo cosa l'abbia fatta ammalare». Si grattò il naso, pensieroso.
«Papà, so che è un pessimo momento per chiedere di...» iniziò Ella.
«Vai pure. So che la cerimonia di Sylvan sta per cominciare, e puzzi di terra e maialini».
«Per usare un eufemismo», aggiunse Puck, divertito.
«Purtroppo temo che la sua cerimonia non sarà molto affollata se Rosalia non migliora», concluse Erannon. «Puck e io faremo il possibile per esserci. Ci resta un'ultima faccenda da sbrigare».
Con ciò, Ella si voltò e si mise a correre più veloce che poteva. La casa apparve all'orizzonte proprio mentre sua madre si alzava in volo nel cielo.








































