Onaiza Khan
Quando mi svegliai non era mattina, era pomeriggio, e Alba mi stava toccando leggermente una spalla. Era l'una e mi aveva portato il pranzo.
Di solito, quando mi vedeva dormire la mattina, lasciava la colazione sul tavolo e se ne andava, ma a pranzo mi svegliava. Mi ero addormentata tardi, quindi non mi ero svegliata presto.
Mi strofinai gli occhi e guardai il tavolo; il porridge fumante che pensavo dovesse essere il pranzo era lì, ma decisi invece di buttarmi sul french toast freddo.
Alba se ne andò in un minuto e ricomparve mentre stavo ancora mangiando, portando una tazza di caffè caldo. Le fui molto grata.
A volte lei mi ricordava mia madre. Senza che io dicessi una parola, sapeva cosa volevo.
Le sorrisi, desideravo anche abbracciarla, ma decisi di non farlo. Non volevo sentirmi troppo a mio agio qui, soprattutto dopo il tipo di sensazioni che avevo provato per Daniel la sera prima.
Invece di stargli il più lontano possibile, mi ero avvicinata a lui, avevo trovato persino pace in sua presenza. Una cosa del genere era disgustosa. E non ero fiera di me stessa.
Lo chiamavo Danny quando ci eravamo sposati, ma ora, anche se pronunciavo il suo vero nome, la mia bocca si sentiva sporca dentro. Come se fosse la parola peggiore nel vocabolario dell'intera storia di questo mondo.
Come se fosse maledetta e infausta. Una sciagura.
Non sapendo cosa fare per il resto della giornata, mi infilai di nuovo nel letto e i miei occhi caddero sulla sua collana.
Portava sempre una collana che era appartenuta a sua madre. Non era molto femminile, per questo non sembrava strana su di lui.
Era una catena d'argento con una pietra rossa come ciondolo. Questa era coperta da una cornice d'argento. Il disegno era molto complicato. Come un miscuglio di linee. Una specie di labirinto.
Ma un'apertura circolare nel centro dava alla pietra la luce che meritava. Quella collana mi sembrava come un cuore dentro alle costole: l'argento era le costole e la pietra rossa il cuore.
Quest'ultimo era protetto dal groviglio di ossa ma non poteva essere nascosto.
Una volta mi aveva detto come si chiamava quella pietra, qualcosa che iniziava per "c", ma non ricordo cosa fosse, anche se sicuramente non era corallo.
La presi in mano e sfiorai leggermente la pietra con il pollice.
Ero persa nel suo disegno quando a un tratto mi ricordai senza preavviso che non avevo mai toccato le sue cose. Se lasciava i suoi vestiti o qualsiasi altra cosa nella stanza, non li sfioravo nemmeno.
Se elementi astratti come il suo nome o la sua presenza mi influenzavano così tanto, toccare i suoi oggetti tangibili era disgustoso. Gettai di nuovo la collana sul suo lato del letto.
Andai a guardare fuori dalla finestra.
Il sole splendeva magnificamente ora e non c'era traccia della pioggia spaventosa. Era luminoso e bello tutto intorno.
La luce si rifletteva sulle montagne, le loro cime coperte di neve e la vegetazione che scendeva verso il basso.
C'erano così tante sfumature nelle montagne, nel paesaggio. Avrei voluto annotarle su un piccolo foglio di carta con i pastelli.
E mi chiedevo che razza di posto potesse essere questo. Gli Appalachi? L'Himalaya? Le Montagne Rocciose?
Non sapevo in che città o paese mi trovavo, il che era totalmente assurdo. Avevo preso un volo da New York e cambiato aereo un paio di volte prima di arrivare qui.
Sapevo sicuramente dove ero atterrata. Avevo letto i cartelli sulla strada mentre venivamo qui. Anche sotto la beatitudine di essere appena sposata con un uomo che sembrava un dio greco, non c'era modo di non ricordare tutto questo.
Riuscivo a vedere quei segnali per gli aeroporti e le strade nella mia mente, ma tutto era completamente confuso. Poco chiaro.
Era come se tutte quelle indicazioni importanti si fossero spostate nel mio inconscio. Sapevo che erano lì, ma non potevo accedervi.
Non avendo altro da fare nella mia vita, avevo cercato di recuperare quelle informazioni molte volte, ma non ci ero mai riuscita: era come se ci fosse una barriera fisica tra me e loro.
Così, anche se avessi accidentalmente afferrato un telefono, non sarei stata in grado di dire a nessuno dove mi trovavo.
Odiavo il fatto di essere in trappola.
Ricordo che in India avevo guardato con una mia amica un film intitolato Room in cui una ragazza viene rapita da un uomo e tenuta prigioniera per sette anni.
Dà alla luce un bambino di nome Jack, e quando il figlio ha cinque anni, lei riesce a fuggire con il suo aiuto.
Era inquietante, ma sapevo che era solo una storia triste fatta per far piangere la gente e dimenticare i propri problemi. Non c'era nulla di lontanamente reale.
Quando avevo visto la mia amica versare qualche lacrima, l'avevo consolata: "È solo un film, non prendertela troppo".
Lei mi aveva risposto: "Ho letto storie vere in cui le persone vengono rapite e torturate per anni e non riescono a scappare o a fare qualcosa".
Potevo sentire la sua voce cristallina nella mia testa. Com'era diversa la vita allora? Avevamo pranzato a casa mia, guardato quel film sul mio portatile a letto e poi bevuto una cioccolata calda.
Decisi di chiedere ad Alba di prepararmene una quando mi avrebbe portato la cena.
Cominciai a camminare per la stanza senza volerlo e notai un DVD appoggiato sul tavolo della televisione, il che era strano.
Lui non avrebbe mai lasciato niente del genere nella stanza. Anche la sua valigetta e la borsa del portatile erano bloccate da una password.
Lo presi all'istante senza darmi la possibilità di riconsiderare di toccare le sue cose e lo girai.
Sul retro c'era scritto: "Per te, per passare un po' il tempo".
Non potevo credere a quello che avevo letto e lo rimisi a posto. Non volevo la sua pietà. Se ero riuscita a trascorrere tre mesi senza divertimenti, sicuramente non ne avevo bisogno ora.
Se cedo, pensai, ~crederà di potermi facilmente controllare come un burattino.~
Ma la pioggia ricominciò. Quella pioggia.
Tutte le sensazioni ossessionanti della scorsa notte iniziarono a riaffiorare di nuovo in me. La bella giornata di sole fu eclissata da una nuvola di paura e oscurità.
Mi dissi: è solo un piccolo cambiamento del tempo, niente di personale. Invece mi sembrava una questione personale. Non sapevo perché.
Ero l'unico bersaglio di quella pioggia. Era un nemico di un tempo o di un'altra vita. Voleva vendicarsi.
Mi seppellii nella coperta e cercai di dormire, ma era tutto come la notte precedente, solo che lui non era lì.
Cercai di immaginarmelo come se l'avessi visto. La sua barba corta, le ciglia enormi, le labbra sottili.
In pochi minuti, era quasi lì davanti a me.
Conoscevo ogni curva, ogni linea e ogni minuscolo tratto del suo viso al punto da poterlo ricreare.
Mi odiavo per averlo fatto. Non ho bisogno di lui, continuai a ripetermelo.
Nel tentativo di distrarmi, presi il DVD, lo misi nel lettore e lo accesi.
Era la serie televisiva americana Lost. Ne avevo sentito parlare, qualcuno mi aveva detto che era come ~The Walking Dead~ e io odiavo ~The Walking Dead~, quindi non volevo guardarla.
Ma poi pensai che qualsiasi cosa era meglio che pensare a lui. Qualsiasi cosa. Letteralmente.
Così cominciai a guardarla fin dall'inizio e mi ci persi davvero.
Parlava di un gruppo di persone che sopravvivono a un incidente aereo e sono costrette a vivere su un'isola misteriosa, senza nessun aiuto in arrivo.
A volte ero completamente immersa nel dramma, come se fossi anch'io sull'isola. La pioggia continuava a scrosciare a dirotto, interrompendo ripetutamente la mia concentrazione.
Iniziai così a inventare la mia storia. Cosa avrei fatto se fossi stata lì? Con chi avrei fatto amicizia? Cosa avrei mangiato?
Per qualche motivo mi piaceva il ragazzo coreano. Anche se razionalmente parlando non era molto simpatico, era davvero conservatore e prepotente con sua moglie. Ma qualcosa in lui mi aveva toccato. Non saprei dire cosa.
E la porta si aprì di nuovo: era ora di cena.
Il mio stomaco iniziò automaticamente a brontolare alla vista di Alba. Lei notò la televisione e mi fece un sorriso compiaciuto. Come se mi approvasse, mi accettasse.
Non potevo sapere cosa avesse in mente. Non parlava mai, come se l'unica lingua che conoscesse fosse il sorriso.
Ma in quel momento Alba non mi era simpatica. Sembrava essere dalla sua parte. Pensavo che volesse che io cedessi e fossi felice con lui. Poteva avere buone intenzioni, ma non mi piaceva quel sorriso.
Così non chiesi la cioccolata calda. Chissà se avrebbe comunque capito la mia richiesta?
Cominciai a trangugiare la zuppa che aveva portato e non le lasciai ritirare il porridge del pranzo. E se avessi avuto di nuovo fame?
Avevo strane paure ora, quella di morire di fame si era aggiunta alla lista.
Poi notai un thermos caldo dopo che se n'era andata. Lo aprii e fui felice di vedere del caffè. Non avevo mai preso il caffè a quell'ora anche quando avevo dormito fino a tardi. Deve avere qualcosa a che fare con il tempo.
Mentre mi godevo il pasto, temevo il suo arrivo. Tra poco saranno le otto e lui sarà qui, poi scacciai quel pensiero dalla mia mente.
Dopo aver mangiato, continuai a guardare la televisione. Ormai ero dipendente. Volevo sapere cosa sarebbe successo. Volevo conoscere tutto come se la mia vita dipendesse da quello.
Episodio dopo episodio, continuai a guardare. Improvvisamente, mi resi conto che mancavano venti minuti alle undici e lui non c'era ancora.
Non lo stavo aspettando, ma notai la sua assenza e in un certo senso mi preoccupai. Non lo volevo lì, ma la mia mente continuava a vagare, chiedendosi dove fosse.
Ormai avevo visto undici episodi della serie e i miei occhi avevano un disperato bisogno di riposo.
Andai in bagno e mi stavo di nuovo dirigendo verso il letto quando sentii un rumore. Un gemito.
Potevo avvertire il dolore in quella voce, ma da dove veniva? Un suono così sommesso poteva essere sentito solo da qualcuno vicino. Molto vicino. E tecnicamente non avrebbe dovuto esserci nessuno così vicino a me.
La cucina, il soggiorno e tutte le altre stanze erano di sotto. Questo piano era solo per me. Iniziai a camminare senza meta per la stanza e la voce cominciò ad avvolgere la mia mente.
Ora era come la pioggia. Non mi lasciava in pace. Osservai che il suono diventava più chiaro quando mi avvicinavo alla porta della biblioteca.
Quella porta era sempre chiusa a chiave... solo che non lo era.
Ero così abituata a vederla chiusa, che non avevo nemmeno notato che era sbloccata. Avevo sempre voluto entrare lì dentro, ma realizzare che ora era aperta mi dava i brividi.
Non sapevo cosa fare.
E se Daniel fosse stato lì dentro? Avrebbe potuto nascondersi lì dalla mattina, volendo beccarmi mentre aprivo la porta.
E se ci fosse stato un mostro che mi attirava dentro per uccidermi?
Molti di questi pensieri andavano e venivano, ma solo uno, solo un'idea rimaneva. L'altro ragazzo, l'ostaggio, LUI è lì dentro, pensai. E anche dopo tanti sforzi, non riuscivo a scacciare quel pensiero.
Sapevo che non era possibile che fosse nella biblioteca, non avevo mai visto nessuno portarlo qui. Ma poteva esserci un altro modo per entrare. Un'altra porta.
Dovevo scoprire cosa c'era lì dentro, altrimenti mi avrebbe ucciso. Avevo bisogno di chiudere questa storia.
Nel programma televisivo che avevo guardato, due ragazzi avevano trovato una botola misteriosa. E io sentivo proprio quello che loro dovevano aver provato per essere stati attirati da qualcosa di così invitante e così potenzialmente pericoloso.
Quante volte dovevano aver voluto aprirla, e quante volte invece avevano voluto scappare. Proprio come mi sentivo io.
Anche se la mia situazione era completamente diversa, volevo che fossero dalla mia parte e mi incoraggiassero ad aprire la porta.
Alla fine la aprii.
Era proprio come una qualsiasi piccola biblioteca, una stanza quadrata con due enormi scaffali sul davanti e sulla parete sinistra. E apparentemente non c'era nessuno.
C'erano un sacco di libri, alcuni di letteratura classica, altri di economia e di auto-aiuto in inglese e in francese. Mi colpì perché Daniel era francese: sua madre era francese e suo padre indiano.
E ancora quel gemito. Non avevo idea da dove provenisse. Ma era più forte lì, e non riuscivo a vedere nessuno.
Volevo tornare di corsa nella stanza e chiudere la porta della biblioteca. Pensavo che potesse esserci un fantasma. Ma anche se ci fosse stato, avrebbe potuto seguirmi rapidamente nella stanza, quindi non aveva senso correre ora. Era già troppo tardi.
Pensai di essere probabilmente in trappola quando notai una finestra sulla parete destra. Un barlume di speranza si accese nel mio cuore.
E se questa finestra si aprisse? E se non fosse sigillata dall'esterno come le altre della stanza? Probabilmente è per questo che tiene chiuso a chiave questo posto.
O voleva privarmi dell'aria fresca o impedirmi di suicidarmi. Qualunque fosse la ragione, si era assicurato che le finestre della stanza fossero sigillate e il vetro infrangibile.
Avevo provato di tutto nei miei primi giorni qui, quindi ne sapevo qualcosa.
E avevo ragione, questa finestra si aprì.
Ma non trovai né sole né luce né aria fresca ad accogliermi. Una raffica di vento e acqua mi spinse dentro. Inciampai su qualcosa e per poco non mi slogai il piede.
Mi affrettai a chiudere la finestra, l'acqua e l'aria non mi piacevano, per quanto fossero naturali. La natura non era d'accordo con me in quel momento.
E i miei occhi caddero su una valvola sulla parete di fronte dietro lo scaffale, proprio come quella che avevo visto su un serbatoio d'acqua a casa. Era stata nascosta da qualcosa che immaginavo fosse stato portato via dal vento.
Ora ero più che spaventata. Ma anche la curiosità non mi abbandonava. Ero spaventata e curiosa.
Mi sentivo come l'eroina nei film horror quando sente dei rumori e va alla ricerca del fantasma con una piccola torcia in mano gridando: "Chi è?"
Girai la valvola alla mia destra e il muro si aprì, letteralmente. C'era abbastanza spazio per infilarmi oltre lo scaffale ed entrare.
Non ero sicura che fosse tutto reale. Avrei potuto avere un'allucinazione dopo quello che avevo passato.
Avevo l'abitudine di cercare su Google tutto ciò che sentivo o pensavo. In quel momento avevo una gran voglia di cercare su Google "allucinazioni". Ma ovviamente non avevo accesso a internet.
Mi rimaneva solo la mia sfrenata immaginazione. Cercai di concentrarmi su ciò che stava per accadere e di non dichiararmi già pazza. Darmi della pazza non era compito mio, giusto?
Entrai in quello che mi piaceva chiamare "oblio". Era come un passaggio buio, e qui sentii la pioggia più forte.
Sembrava essere un frammento dell'inferno, il mio inferno personale, e questo passaggio era esattamente come la mia vita: vuoto e buio. Camminavo dritto e non capivo dove stavo andando.
Avrei potuto facilmente essere sonnambula perché mai prima d'ora avevo sperimentato qualcosa di simile nella vita reale.
Sabato, 2 luglio 2016, era stata una giornata piena di sorprese, a partire dal DVD. Poi lui che non era venuto, la sua collana nel letto, il caffè in più, la porta lasciata aperta, la finestra, la valvola, e ora quello, qualunque cosa fosse.
E di nuovo quel gemito sommesso. Era reale. Potevo sentirlo nelle ossa. Camminai avanti e indietro lungo il passaggio per scoprire dove la voce era più forte e chiara.
Trovai un punto con una finestra, una finestra di ferro arrugginito, e vi saltai dentro in un batter d'occhio.
Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto essere la tromba di un ascensore. Avrei potuto cadere nell'oscurità, spezzandomi in due. Non ci sarà terra sotto i miei piedi…
Ma per fortuna c'era. E scesi senza problemi. Avrei voluto avere una piccola torcia o la luce del telefono per poter vedere dove stavo andando.
Inciampai su qualcosa, una lattina di birra vuota, quindi qualcuno era sicuramente passato di lì. Puzzava e mi faceva venire voglia di vomitare. Ma non potevo farmi distrarre da una sciocchezza del genere. È una vecchia lattina di birra vuota, non Dracula.
E poi inciampai su un'altra lattina di birra, suppongo, e improvvisamente iniziai a rotolare giù per una rampa di scale.
Mi sentivo Alice nel paese della paura. Nessun bel coniglio bianco con un orologio da seguire, ma la voce inquietante di un'anima torturata.
Era lui, doveva essere lui, l'altro ostaggio. Avevo voluto vederlo da quando l'avevo sentito urlare per la prima volta.
La voce stava diventando più chiara.
Il dolore acuto nel mio corpo non era niente in confronto a quello che sentivo nella mia mente. Potevo percepire la sua sofferenza, la sua agonia senza che lui dicesse una parola.
Volevo aiutarlo, anche mentre il mio corpo si contorceva dal dolore.
Quello che successe dopo fu un po' imbarazzante e meno coraggioso da parte mia. Calpestai quello che pensavo fosse un grosso topo, e improvvisamente si rivelò la cosa più spaventosa della mia vita.
Potevo immaginare l'intero posto brulicante di topi e avevo la sensazione che se avessi fatto un altro passo, mi avrebbero strangolato a morte. Una morte puzzolente. Un'altra mia strana paura.
Così tornai di corsa al piano di sopra, questa volta senza calpestare o inciampare in nulla, e chiusi quella maledetta porta.
Mi stesi sul letto, chiudendo gli occhi il più forte possibile. E un altro pensiero mi attraversò la mente.
Il ragazzo coreano è come Daniel. Il suo viso inespressivo e il suo comportamento iperprotettivo. Sempre a cercare di sottomettere la moglie e di controllarla. Cercavo Daniel in lui.
Era una sensazione ripugnante. Era difficile accettare l'idea che ero ancora innamorata di lui.
Maledicendomi per questo, mi addormentai.